È andato avanti fino alla mezzanotte di domenica il trasbordo dei cento naufraghi rimasti per almeno 15 ore in mare, a largo di Misurata, tra i resti del gommone che affondava. Sono stato raccolti dal cargo Lady Sham, bandiera della Sierra Leone, mandato solo a tarda sera dalla Guardia costiera di Tripoli, su pressione del governo italiano. Hanno rischiato di morire per ipotermia (e forse uno dei bambini ne è morto) ma il sollievo è durato poco. Quando si sono resi conto che facevano rotta verso Misurata, hanno fatto la stessa cosa che li ha salvati dall’annegamento, hanno chiamato i volontari di Alarm phone, la piattaforma che raccoglie gli Sos dal Mediterraneo: «Due sopravvissuti ci hanno contattato dal mercantile – hanno scritto ieri pomeriggio su twitter -, hanno capito che li stanno riportando in Libia e dicono che preferirebbero uccidersi piuttosto che sbarcare. Era stato detto loro che sarebbero stati sbarcati in Italia, il rimpatrio in Libia è uno shock, siamo preoccupati per il loro stato fisico e mentale».

Era stato Alarm phone domenica mattina a inoltrare la richiesta di soccorso. Le condizioni del gommone sono però degenerate rapidamente, dal battello l’appello drammatico di uno dei naufraghi: «Non ho bisogno di essere al telegiornale, ho bisogno di essere salvato». E ancora: «Stiamo congelando, siamo disperati». Il resoconto dei volontari è drammatico: «Abbiamo chiamato sette numeri differenti della cosiddetta Guardia costiera di Tripoli senza risposta. Malta ci ha fornito un ottavo numero, che non risponde. Abbiamo avvisato Italia e Malta che la Libia non è raggiungibile. Nessuno ha attivato il soccorso». Domenica pomeriggio è arrivato un velivolo dell’operazione Ue Sophia, solo intorno alle 22 la Lady Sham ha cominciato le operazioni di trasbordo.

«Erano in acque internazionali quando sono stati salvati – ha poi spiegato Alarm phone -, dunque sono stati illegalmente riportati nella Libia sconvolta dalla guerra. Questo viola le leggi internazionali». Opinione condivisa dall’Unhcr che, con Carlotta Sami, sottolinea: «Il ritorno di persone da acque internazionali verso la Libia è contro il diritto internazionale. Si dice che è stato un successo aver fermato questo barcone ma è stato ottenuto sulla pelle delle persone».
Per giustificare il mancato intervento, la Guardia costiera libica ha diffuso un report: domenica sarebbero stati recuperati 393 migranti in tre interventi. In quanto ai cento, Tripoli sostiene di avere assunto il coordinamento del salvataggio inviando però il cargo per carenza di motovedette. Venerdì scorso sono annegati in 117, in quel caso il mancato intervento è stato attribuito a un’avaria. «L’Italia conosce la nostra situazione, chiediamo maggiori aiuti all’Ue» ha concluso l’ammiraglio Ayoub Qassem. Un richiamo al governo gialloverde, che aveva promesso addestramento e nuove navi, per ora non consegnate.

Non hanno ancora un porto di sbarco i 47 salvati sabato dalla Ong Sea Watch: «Siamo in mezzo al mare, nessuno ci dice dove andare né sappiamo di chi è il coordinamento dell’operazione». Anche a bordo della Sea Watch 3 i migranti sono preoccupati: «Non vogliono tornare nei lager libici – ha spiegato la portavoce dell’Ong, Giorgia Linardi -. Quando hanno saputo che la Lady Sham era diretta in Libia hanno commentato: ’Li stanno riportando all’inferno’. È un altro caso Nivin». Il riferimento è ai 79 che lo scorso novembre si rifiutarono di scendere nel porto libico dove erano stati ricondotti. Per Linardi l’Italia sta avallando un respingimento: «Palazzo Chigi è intervenuto nel coordinamento dei soccorsi, c’è quindi una responsabilità italiana. Il ministro Toninelli non considera i trattati internazionali. Oltre al principio di non respingimento, è stato violato il diritto del mare: la Libia non è un porto sicuro».

Sulla Sea Watch 3 ci sono 8 minori non accompagnati, il tempo è in peggioramento: la nave è al largo di Tripoli, la priorità è trovare un riparo dal mare in tempesta. Nel precedente salvataggio ci sono voluti 19 giorni per ottenere il porto di sbarco. «Mandiamo mail a tutti: Malta, Italia, Libia, Olanda e nessuno dice nulla – conclude Linardi -. I libici non hanno mai risposto. Si ignorano di nuovo le norme internazionali sullo sbarco in un porto vicino e sicuro».