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Chloé Barreau, «basta vittime, è tempo di piantarla»

Chloé Barreau, «basta vittime, è tempo di piantarla»Dominique Fortin

Non Una Di Meno A una narrazione mortifera si contrappone la straordinaria forza femminile. Parla l'autrice dei video-inviti alla manifestazione

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 3 marzo 2017

Creatura riservata e luminosa, professionista di talento con le immagini, Chloé Barreau ha realizzato alcuni dei video-inviti per lo sciopero globale dell’8 marzo. Circolano da qualche giorno e sono stati pensati per rappresentare sia la rete italiana di #Nonunadimeno, sia alcune soggettività che insieme ad altre hanno seguito questi mesi di processo politico che le vedono ancora in cammino (in particolare Di.Re, Donne in rete contro la violenza e l’associazione Cattive Maestre).

«Al pianto di una narrazione da vittime ho preferito piantarla, cioè finirla lì, mostrare quindi l’azione consapevole di andarsene», dice Barreau, incontrata alla conferenza stampa di #Nonunadimeno svoltasi ieri alla Casa internazionale delle donne di Roma. Piccoli racconti per immagini (il più lungo supera lievemente i due minuti mentre le riduzioni si fermano a 45 secondi), i video hanno il pregio di rivolgersi a un pubblico molto ampio. Scuola, lavoro (compreso quello di cura), relazione tra i sessi, sono solo alcune tra le piazze tematiche su cui #Nonunadimeno ha inteso lavorare, grazie a Barreau descritte ora attraverso la scelta di protagoniste del cinema facilmente riconoscibili (un arco lungo che va da Anna Magnani a Julia Roberts).
In sottofondo la canzone interpretata nel 1963 da Leslie Gore e che ha fatto epoca, You don’t own me. «Me la cantava mia madre quando ero bambina», ci specifica Chloé, «penso abbia un significato chiaro, sul sottrarsi alla proprietà».

I video-inviti hanno allora il tratto comune di chi crede che a scendere in piazza l’8 marzo saranno donne di diverse generazioni che andranno a ribadire la propria forza femminile. Ma anche l’ironia, precisa l’autrice, come a suggerire che alla sapienza di aver maneggiato più di 80 film entro cui hanno gravitato le scelta dei fotogrammi e delle scene montate, vi è stato l’intento di essere efficaci sul piano della comunicazione e insieme certe che il risentimento senza fine (che spesso assume l’isolata rivendicazione) verrà sostituito da una rabbia gioiosa. È uno scarto apparentemente irrilevante eppure aiuta una narrazione a cambiare simbolicamente di segno.

Notevole è anche il modo in cui le varie rivisitazioni della canzone di Leslie Gore, che all’epoca aveva solo 17 anni, compaiono sottotraccia ai video. L’una e l’altra si passano il tenore di un messaggio tutto politico secondo cui «si è libere e si ama essere libere», questa passione per la libertà consente di non farsi trovare. Proprio come restituisce il femminismo, la dirompenza di assumere la propria differenza e parzialità; non essere ultime né irrimediabilmente oppresse anche nella prossima piazza dell’8 marzo – come in quella del 26 novembre.

Non farsi trovare, allora, è l’espressione di una modalità di «sciopero» femminista che arriva prima della formulazione «sociale» di stampo sindacale. Sottrarsi, fermarsi, soprattutto ribaltare l’ovvio di una presenza che non serva più da conforto né da esubero, che non sia cioè un semplice «contributo» alla causa di altri. Ma che dica ciò che nelle immagini di Chloé Barreau è piuttosto chiara: un congedo dal pianto nella festa dello scoprirsi insieme.

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