«In Basilicata, dove i cittadini erano in condizione di valutare bene la portata del referendum, abbiamo raggiunto un risultato straordinario». Piero Lacorazza è il presidente del consiglio regionale dell’unica regione dove è stato raggiunto il quorum. È uno dei promotori del referendum sulle trivelle di domenica, nel resto d’Italia rimasto sotto la soglia minima dei votanti e dunque invalidato.

Lacorazza, la sua tesi è che ci fosse stata maggiore consapevolezza anche altrove si sarebbe potuta avere una maggiore partecipazione?
Dico che chi ha ben compreso cos’era effettivamente in ballo domenica, e conosce la portata dei rischi e dei benefici perché li vive sulla propria pelle, sto parlando dei cittadini lucani, a votare in maggioranza ci è andato e ha votato sì. La disinformazione – e non solo, anche l’informazione sbagliata – hanno sicuramente pesato sul quorum. Alcuni argomenti hanno fatto breccia. Ad esempio quello dei posti di lavoro che si sarebbero persi, argomento forte in questa fase di crisi economica prolungata. Peccato che però non si sia capito bene quanti dovevano essere i posti a rischio. Prima erano undicimila, poi quindicimila, alla fine ottomila; numeri fatti anche dal presidente del Consiglio senza mai indicare la fonte. E quando poi Renzi ha detto, commentando il risultato, che da domani gli operai potevano tornare sulle piattaforme, mi chiedo: ma quando mai ne erano scesi?

Denunciata la disinformazione come una delle cause, resta la sconfitta.
Un momento, non si può valutare la campagna referendaria guardando solo al mancato quorum di domenica. L’iniziativa nel suo complesso ha visto importanti obiettivi raggiunti. Abbiamo smontato la strategia energetica nazionale che risaliva al governo Monti ed era stata concretamente attuata dallo Sblocca italia del governo Renzi. Questo perché cinque dei nostri sei quesiti originari sono stati recepiti da norme nazionali. Anche sull’unico referendum rimasto abbiamo raggiunto un paio di risultati importanti: entro le 12 miglia non ci saranno più concessioni e tutte le richieste di concessioni in corso sono state definitivamente bloccate. Purtroppo non si potranno smontare le piattaforme allo scadere delle concessioni, ma è stato comunque un successo.

Un successo anche i soldi spesi invano per il referendum, generalmente quantificati in 300 milioni di euro?
Il governo poteva risparmiarli tutti, semplicemente venendo incontro anche all’ultima richiesta delle regioni. Sarebbe così caduto anche il sesto quesito.

Siete andati avanti per ripicca?
È un altro argomento da smontare. Tutti dovrebbero sapere che nel momento in cui le regioni depositano i quesiti, questi non sono più nella loro disponibilità. Sono affidati alle decisioni della Cassazione, della Corte costituzionale e al limite del parlamento che può cambiare le leggi rendendo superata la consultazione popolare. Non eravamo noi che potevamo ritirare una richiesta di referendum. Magari alle regioni sarebbe persino convenuto, poteva essere più comodo. In fondo avevamo raggiunto degli ottimi risultati costringendo il governo a correggersi e restava solo un quesito oggettivamente debole. Ma la coerenza ci ha imposto di fare la campagna elettorale per il si.

Sta dicendo che l’unico modo per risparmiare da parte del governo era darvi completa ragione?
Il governo avrebbe potuto anche accorpare il referendum alle prossime elezioni amministrative. Ancora domenica sera Renzi ha ripetuto che c’è una legge che lo impedisce. Ma le leggi si modificano con le leggi. Del resto è già stato fatto in occasione del referendum sulla legge elettorale nel 2009, che si è tenuto il 21 e 22 giugno in concomitanza con i turni di ballottaggio.