Passata l’ultima curva della Salaria prima di Arquata del Tronto, il disastro è lì ad attendere soltanto di essere notato. Un anno dopo il terremoto che ha ridisegnato per sempre la geografia civile all’incrocio montanaro tra le Marche, l’Abruzzo, l’Umbria e il Lazio: alzare lo sguardo vuol dire imbattersi nella visione della torre della rocca del paese che sovrasta un cumulo di macerie, un paese che alle 3 e 36 del 24 agosto di dodici mesi fa si è accartocciato su se stesso insieme ad Amatrice e ad Accumoli: 300 morti, altrettanti feriti e un popolo che è stato costretto a fare i conti non solo con il disastro naturale, ma anche con il ritardo tutto umano della gestione dell’emergenza.

I NUMERI DIFFUSI dalla protezione civile immortalano il tempo che si è fermato: su 3.745 casette provvisorie ordinate dai 51 comuni che ne hanno fatto richiesta, quelle consegnate sono appena 610: 138 a Norcia, 324 ad Amatrice, 105 ad Accumoli, 42 ad Arquata e una sola a Torricella Sicura, in provincia di Teramo. In altre 101 aree i lavori sono in corso e la consegna dovrebbe arrivare nelle prossime settimane: bisogna sempre tener presente che, all’inizio di tutto, l’allora premier Matteo Renzi aveva assicurato che sarebbero bastati sei mesi per sbrigare la pratica. Il conto ufficiale degli sfollati ormai si è perso, ma ci sono ancora migliaia di persone che vivono tra alberghi e case in affitto, in attesa che qualcuno dica loro cosa fare.
Poi ci sono le macerie, quasi tutte ancora lì dove le ha lasciate il sisma e le strade, per lo più sbarrate dai militari.

Spostandosi da Arquata verso ovest, si passa sotto a Pescara del Tronto, inaccessibile: è crollata persino la collina, la frazione non c’è più. Letteralmente. Si vedono solo i tetti di cemento armato che hanno schiacciato le case: sotto le macerie ci morirono una cinquantina di persone. In basso abitazioni provvisorie, il centro di coordinamento della protezione civile e qualche capannone industriale in costruzione, tra cui quello famoso che reca sulla facciata la gigantesca scritta Tod’s.

LA STRADA PRINCIPALE che conduce ad Amatrice, qualche chilometro oltre, è chiusa: porta direttamente nel cuore della zona rossa e quindi, per arrivare al paese, bisogna fare il giro largo. Perdersi tra curve e svolte non segnalate è un attimo, è così che ci si ritrova in mezzo a borghi di quattro case appena, distrutti e non sorvegliati. Come Sommati, dove c’è un altro villaggio provvisorio in costruzione e a presidiare la zona si vedono solo Nando Bonanni e la sua famiglia, accampati in roulotte parcheggiate nel giardino della «Fattoria», quello che era il suo ristorante.

 

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Dentro ci sono ancora le stoviglie sistemate nei carrelli di ferro, tutto coperto da un fitto strato di polvere. «La sera prima del terremoto c’era la partita della Roma – racconta Bonanni – e avevo avuto quasi 300 persone a cena. Non abbiamo più toccato nulla da allora». Le macerie sono ovunque, i muri sono squarciati, la cucina è crollata. A breve, comunque, gli è stato promesso che potrà riaprire, in un container poco di fianco. «Sì, ma in questi mesi me ne hanno dette tante. Speriamo bene…», dice ancora il signor Nando, che passa le sue giornate in mezzo alle case sventrate e comunque riesce a non perdere quasi mai il sorriso: «Con certe cose bisogna imparare a conviverci», e la frase vale più di un monito.

È un manifesto ambientale, perché è la stessa cosa che si sente dire dagli abitanti di Amatrice. Sorridono tutti, gentili anche più del dovuto. È agosto: malgrado tutto, il paese è pieno di turisti. Camminatori di montagna, famiglie in gita, avventori dei mitici ristoranti della zona.

È di poche settimane fa il taglio del nastro della futuristica «area food» di Amatrice: un insieme di strutture in legno con tetti ad angolo acuto in stile Ikea e finestroni affacciati sulle montagne: qui hanno trovato una nuova casa i locali distrutti dal sisma, e la gente sembrerebbe gradire.

Al centro dello spiazzo, c’è una specie di monumento: dei pezzi di legno cilindrici che salgono verso il cielo per tre o quattro metri, sistemati in cerchio. Chiedere il significato dell’opera ai ragazzi che curano il museo cittadino non aiuta a chiarirsi le idee: «È una cosa di design».

LA ZONA ROSSA di Amatrice è sorvegliata dagli alpini, ma dalla strada si vede praticamente tutto. L’ex vialone centrale del paese è invaso dalle macerie e dai resti degli edifici piegati dal sisma, a ogni folata di vento la polvere ancora si solleva in aria. Le case che non sono crollate si sono spostate. Il sisma le ha fatte saltare senza distruggerle e adesso sembrano accatastate l’una sull’altra.

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È ancora possibile vivere in una zona in cui la natura fa e disfa, sposta e distrugge, si muove quando vuole e come vuole? La risposta sta nel confronto tra una forza inarrestabile e un qualcosa di inamovibile: tra l’inevitabilità degli eventi naturali e l’umana, troppo umana, speranza. Che non muore mai.