La crisi libica offre a Giuseppe Conte l’occasione di segnare con un gesto dignitoso e insolito una presidenza del consiglio altrimenti mediocre: si opponga a Trump, difenda l’Europa, consideri l’interesse nazionale. Non glielo chiedono la maggioranza, l’opposizione o l’informazione, in apparenza immuni da un pensiero così audace. Glielo chiede la verità. È stato Trump a sciogliere il suo mastino da guerra, Haftar. Lo confermano l’amichevole telefonata del presidente americano al generale libico mentre già infuriava l’attacco su Tripoli, e soprattuto quel che Trump ha fatto (e non ha fatto) nei giorni in cui cominciavano i combattimenti. Ha ricevuto l’egiziano al Sisi, il primo sponsor di Haftar. Ha bloccato (con Putin e a Macron) le mozioni tedesca e britannica in Consiglio di sicurezza per imporre ad Haftar la ritirata. Non ha chiesto a sauditi ed emiratini di fermare l’offensiva, che dipende dal loro denaro e dalle loro forniture almeno quanto sauditi ed emiratini dipendono da Trump per la guerra nello Yemen. Gli sarebbe bastato un tweet. Ma quel tweet non è partito.

Comunque finirà la battaglia di Tripoli, i burattinai di Haftar hanno già raggiunto il loro scopo, cancellare quella Conferenza nazionale libica alla quale Onu, Berlino, Roma e Londra affidavano l’esile speranza di stabilizzare la Libia. Prevista per metà aprile, la Conferenza aveva due colpe agli occhi della Santa Alleanza formata da petro-monarchie, dittatura egiziana, amministrazione Trump e governo Netanyahu. Avrebbe legittimato i Fratelli musulmani, invitati malgrado la Santa Alleanza li consideri un’insidia mortale. E forse sarebbe riuscita ad avviare un processo semi-democratico in Libia, prospettiva orribile per la consorteria di teste coronate e caste militari, che già sospetta le avvisaglie di una seconda “primavera araba” nelle rivolte popolari in corso in Algeria e in Sudan. Haftar è il suo scaccia-incubi.
Gli europei hanno incassato l’atto ostile del teoricamente alleato Trump con la solita remissività. Ora tentano di evitare che la Libia sprofondi nella guerra civile con iniziative flebili. L’inviato dell’Onu Salamé e il governo Conte confidano in un compromesso tra i belligeranti allestito da Roma e da Parigi. Ma al più ne potrebbe risultare un armistizio temporaneo. Gli amici di Haftar non rinunceranno al loro bottino di guerra. E Trump potrà estorcere qualcosa agli europei.

Giuseppe Conte sembra convinto che converrà pagare. Nei giorni scorsi il premier ha spedito il suo consigliere diplomatico per incontrare il leader dell’opposizione venezuelana Guaidó: non ancora il riconoscimento formale di Guaidò quale presidente legittimo, come chiede Washington, ma certo un passo in quella direzione. Però Trump potrebbe pretendere di più per mettere la catena ad Haftar, innanzitutto che Roma ratifichi l’accordo per il gasdotto East-Med (il memorandum d’intesa fu firmato due anni fa da Renzi e Calenda). East-Med dovrebbe portare in Europa gas israeliano e cipriota via Grecia fino a Otranto. L’amministrazione Trump lo vuole fortissimamente, allaccerebbe in una relazione geo-strategica il suo alleato mediorientale, Israele, e l’Europa; inoltre vi partecipano due major americane (Exxon e Noble). Ma East-Med, sommandosi adesso al caos libico, finirebbe per affossare definitivamente un progetto alternativo da tempo nell’agenda della diplomazia italiana: costruire una logistica mediterranea degli idrocarburi che rifornisca l’Europa dalle sponde di quei Paesi produttori dove l’Eni ha una posizione forte (Algeria, Libia, Egitto). Gli europei diminuirebbero la dipendenza dal gas di Putin, l’Italia acquisterebbe preminenza nella politica energetica dell’Unione.

Dunque non solo per una questione di dignità ma anche di cruda convenienza sarebbe necessario agli europei contrastare Trump e costruire una strategia (con o senza l’accordo del Gruppo di Visegrad, la quinta colonna dell’amministrazione americana) a partire da alcune semplici verità. In Libia e Nel Mediterraneo l’amministrazione Trump è parte del problema, non della soluzione. Non ha senso negoziare con Haftar, che risponde ai suoi padroni, né fidarsi di Trump, che in segreto incoraggiava Haftar mentre ufficialmente Washington lo invitava a desistere. Infine, nessuna milizia oggi è in grado di sottrarre la Libia all’anarchia militare, può riuscirvi solo una soluzione politica garantita da un contingente internazionale: esito però irraggiungibile finché Haftar non sarà estromesso dalla scena, per esempio attraverso un atto d’accusa della Corte penale internazionale.

Se tutto questo è vero che cosa farebbe il governo dignitoso di un Paese decente? Convocherebbe il Consiglio d’Europa, spiegherebbe agli altri premier perché la guerra civile libica rappresenta una minaccia non solo per l’Italia, proporrebbe una forza europea di interposizione o una no-fly zone per proteggere Tripoli, obbligherebbe Macron a giocare a carte scoperte. Quel che Conte non farà. Nel luglio scorso annunciò di aver ottenuto da Trump «una cabina di regia permanente per il Mediterraneo»; di più, «l’America riconosce il nostro ruolo di interlocutore privilegiato», anzi «è quasi un gemellaggio». E avendo ricevuto tutti questi titoli era tornato a Roma fiero come uno di quei re africani che gli imperi si toglievano di torno regalandogli un cappello a cilindro e una vistosa coccarda. Se a questo aggiungiamo quel che mostra il parlamento, dove i sovranisti si rivelano America first, mezzo Pd è un po’ likudnik e Di Maio non è, viene da chiedersi se in fondo Trump non ci tratti per quel che meritiamo.