L’indignazione, che nella vita privata è un nobile sentimento, in politica conta pressoché zero se non si accompagna a una reazione concreta. Non si tratta, dunque, di mostrarsi indignati di fronte a questo disastro della politica ma di dire qualche semplice verità circa il perché del fallimento della riforma penitenziaria. Una riforma voluta dal ministro Orlando che aveva avuto, esattamente due anni fa, il 18 aprile del 2016, la sua celebrazione, simbolicamente collocata nell’Auditorium della Casa circondariale di Rebibbia a Roma.

Lì si concludevano, alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano, gli «Stati Generali dell’Esecuzione penale», che avrebbero dovuto realizzare la più importante riforma del governo, attraverso la nomina di un Comitato di esperti e l’organizzazione di Tavoli tematici. Uno sforzo di ampio respiro che rispondeva, a distanza di quarant’anni dalla prima riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, a un’esigenza assai avvertita. Ma che era divenuta una assoluta urgenza a seguito della condanna inflitta dall’Europa con la sentenza Torreggiani, per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo, norma che vieta pene «inumane o degradanti». Le condizioni nelle quali si trovavano le carceri italiane costituivano un peso insopportabile per l’intera collettività, imponendo di dedicare al riscatto dell’intero universo penitenziario uno sforzo corale.

Già in quel contesto, alla presenza di ministri e sottosegretari, della stampa e delle televisioni, si era fatto riferimento ai dati raccolti sul fenomeno della recidiva che imponevano quella riforma: inutile insistere sulla centralità del carcere come rimedio alla delinquenza, risultando oramai evidente che solo l’applicazione di pene alternative e lo svolgimento di un lavoro riducono a limiti minimi (2%) il tasso di recidiva che raggiunge, nel caso in cui invece la pena venga scontata interamente in carcere, tassi superiori al 40%.

A distanza di due anni quel progetto, sia pure parzialmente tradotto in decreti attuativi, non è ancora legge. Il ministro ha difatti inspiegabilmente disatteso, dapprima gli inviti a «stralciare» la riforma penitenziaria (che vedeva il consenso degli operatori, dell’avvocatura, dell’accademia e della magistratura), dalla controversa riforma del processo penale e, successivamente, le richieste di una rapida approvazione di quel testo in Consiglio dei ministri, prima che la legislatura si esaurisse e che la politica nazionale finisse stritolata nel tritacarne elettorale e nel conseguente timore di perdere consensi.

I detenuti in Italia, fra definitivi e in attesa di giudizio (che costituiscono oltre il 30% cento del loro numero complessivo), sono nuovamente saliti a limiti insopportabili (58.300), tali da determinare situazioni di sostanziale illegalità e di impraticabilità di ogni seria forma di trattamento, così come drammatico e insostenibile è il numero dei suicidi che si susseguono oramai ad un ritmo costante di uno alla settimana. Ciò non è sembrato sufficiente ai presidenti dei gruppi parlamentari per ritenere l’urgenza dell’approvazione.

Ed ora si assiste a un triste epilogo, una dissolvenza incrociata nella quale nessun politico (al di fuori dell’oramai tardivo intervento del ministro) difende le ragioni della riforma, e nessuno più ha voglia di diffondere quei dati che dovrebbero essere invece il viatico di ogni politica seria che, facendosi strada fra populismi e demagogia, avesse davvero a cuore la sicurezza dei cittadini e la dignità della persona. Ecco perché i penalisti italiani si asterranno dalle udienze il 2 e il 3 maggio prossimi.

* Presidente Unione Camere penali italiane