Ci sono giudici che in Italia intendono fare pagare le tasse a Airbnb, uno dei campioni del capitalismo di piattaforme. Marcello Viola guida la procura di Milano che si è già distinta negli ultimi anni per una serie di inchieste clamorose, ad esempio quella su Uber Eats. Insieme a lui ci sono i pubblici ministeri Giovanni Polizzi, Cristiana Roveda e Giancarla Serafini.

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L’indagine

Ieri, su richiesta della Procura, la Guardia di finanza di Milano ha sequestrato in maniera preventiva alla multinazionale americana specializzata in affitti brevi online, con sede legale in Irlanda (un paese che fa concorrenza fiscale sleale all’interno dell’Unione Europea), e domicilio fiscale a Milano, 779 milioni e 453 mila 912 euro calcolati su oltre 3 miliardi e 700 milioni di ricavi realizzati tra il 2017 e il 2021. Tre persone che hanno rivestito cariche amministrative sono state indagate per la maxi-evasione. Si tratta di Patrik Clarke Dermot, Mary Hassel Aisilig e Killian Francis Pattwell che hanno “rivestito il ruolo di director”.

Il provvedimento cautelare è l’esito di un lungo percorso di indagini condotte sulla base delle verifiche fiscali svolte dal nucleo di polizia economico-finanziaria di Milano nei confronti di Airbnb. E’ stato così accertato che Airbnb non ha ottemperato agli obblighi previsti dal 2017 da una legge che impone all’azienda di riscuotere un’imposta forfettaria del 21% – chiamata “cedolare secca” – su tutti gli affitti a breve termine. La normativa prevede inoltre che l’azienda comunichi al fisco italiano i dettagli finanziari di tutte le transazioni di affitto.

Per i giudici Airbnb “ormai da anni” ha “piena consapevolezza degli oneri dichiarativi e contributivi introdotti dal legislatore italiano”, ma “ha assunto la deliberata opzione aziendale di non conformarvisi, con il fine precipuo di non rischiare la perdita di fette di mercato in favore della concorrenza, tenendo un comportamento apertamente ostruzionistico verso l’amministrazione finanziaria italiana”.

“Sono tutti imprenditori”

Airbnb non ha commentato. Le sue controdeduzioni a simili contestazioni sono state ispirate all’idea per cui i proprietari degli immobili (i cosiddetti “host”) svolgano un’attività che non si configura come un uso della proprietà in qualità di proprietari che valorizzano un bene immobile sui quali bisogna pagare le tasse. Per Airbnb questo uso assimilerebbe invece il proprietaria alla figura di un “imprenditore” al quale non si applicherebbero le norme del 2017.

Quella di Airbnb è una tesi rilevante per capire la natura del capitalismo digitale. E’ sostenuta in tutt’altro contesto (che non riguarda la proprietà ma il lavoro) da Uber per i suoi autisti e dalle aziende di trasporto di cibo (Deliveroo e le altre) per i loro ciclo-fattorini. I rider, ad esempio, non sarebbero “lavoratori dipendenti”, ma “imprenditori”. Per Uber e Deliveroo questo inquadramento improprio della prestazione eterodiretta, ed evidentemente dipendente, serve ad aggirare le leggi sul lavoro, aumentare il tasso di sfruttamento e a spingere i rider a identificarsi nell’eroe del nostro tempo (l’imprenditore), occultando così la realtà materiale del loro lavoro a cottimo, a tratti servile.

Per Airbnb questa pratica di classificazione errata serve ad alimentare una prassi sociale di massa da cui estrarre un profitto. Non è rivolta al proletariato immigrato o bianco che pedala in bicicletta, o sfreccia a bordo degli scooter, ma alla massa del ceto medio in crisi per mancanza di reddito e di lavoro. Serve a spingerlo a immettere sul proprio mercato online uno o più immobili di proprietà e, dunque, a creare una platea da cui estrarre valore nell’illusione che si tratti di un’attività imprenditoriale o da redditiere che che svolge un’attività di impresa.

Un aspetto, non certo secondario, va segnalato a tale proposito. Una simile “attività di impresa” implica la creazione di filiere di lavoro nero – l'”host”, è ormai noto, acquista in nero le prestazioni di altre persone che gestiscono per lui gli immobili oppure lo puliscono o lo riforniscono dei servizi essenziali. Se, nei fatti, anche questa è un’attività imprenditoriale (e immobiliare), si tratta allora di un’attività che costruisce una piramide di (auto)sfruttamento.

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Sovranità digitale

Sembra essere inoltre dato per scontato il fatto che l’attività imprenditoriale così concepita sia sovra-ordinata alle leggi e che queste ultime debbano adattarsi alla sua multiforme inclassificabilità. E, per questa ragione, dal punto di vista capitalistico, tali leggi possano essere tacitamente eluse in virtù di un uso strumentale della partita Iva, cioè la forma di prestazione che assimila l'”host” di Airbnb all’imprenditore personale.

Su questo punto è interessante capire cosa sostengono i giudici milanesi. Airbnb, a loro avviso, avrebbe potuto vagliare “caso per caso se l’attività di locazione a breve termine rientri nell’esercizio dell’attività di impresa e, quindi, se l’host sia soggetto o meno alla cedolare secca’”. Airbnb invece avrebbe indicato che non erano soggetti all’applicazione della cedolare secca “i titolari di partita Iva”, gli host che hanno “effettuato prestazioni di valore pari o superiore a 65mila euro” e coloro che “forniscono servizi di alloggio simili a quelli alberghieri”, come i servizi di pulizia e lavanderia.

Gli “host professionali”, cioè quelli che guadagnano cifre relativamente notevoli da un’attività di ospitalità intermediata da Airbnb, sono definiti tali secondo “parametri interni” di Airbnb. Sono definibili in questi termini i locatari con “annunci per più di quattro appartamenti”. Tutte le categorie di “host” sono però determinate da Airbnb. E’ quest’ultima che decide se e come applicare l’imposta che dovrebbe riscuotere per lo Stato. Questo è il motivo della contestazione e della conseguente azione penale.

La procura milanese, disponendo la “confisca obbligatoria in forma diretta o per equivalente”, ha agito per evitare che Airbnb continui e “aggravi” le “conseguenze del reato”. Questa misura si è resa necessaria per evitare di continuare a danneggiare gli altri operatori degli affitti online che, invece, rispettano le norme sul sostituito d’imposta.

Il problema è, a questo punto, evidente. La legge italiana affida un compito di riscossione di una tassa a un soggetto che si pensa, a sua volta, indipendente dalle leggi dello Stato in cui opera. E che determina, con le sue leggi, chi fa cosa e perché. L’indagine della procura milanese evidenzia il contrasto tra due forme di sovranità: quella dello Stato “tradizionale” e quella “digitale” degli oligarchi della rete.

Il conflitto europeo con Airbnb

L’interpretazione della Guardia di finanza, della Procura milanese e della gip Angela Minerva è basata su più gradi della giurisprudenza europea e nazionale.

La necessità di recepire il tributo evaso da Airbnb in Italia è stata confermato da un doppio pronunciamento, quello della Corte di Giustizia dell’Unione Europea in una sentenza del 2 dicembre 2022 (causa C-83/21) che ha ritenuto compatibile la “cedolare secca” sugli affitti brevi online definita nel 2017 con il diritto comunitario. Un secondo passaggio, altrettanto se non più importante, è stato quello del Consiglio di Stato. In una sentenza del 24 ottobre scorso (la numero 9188), quest’ultimo ha confermato in maniera definitiva l’obbligo di applicare la ritenuta alla fonte da parte della società americana.

A testimonianza del fatto che il capitalismo di piattaforma cerca di intrufolarsi nelle pieghe, e nei buchi, delle legislazioni nazionali (e comunitarie, in Europa), va anche ricordato che Airbnb ha fatto ricorso contro la norma sulla cedolare secca del 2017.

A parere della multinazionale la sua azione sarebbe protetta dalla garanzia dell’Unione Europea secondo la quale le aziende possono fornire liberamente servizi in uno qualsiasi dei 27 Stati membri. La sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2022 ha rifiutato questa interpretazione e ha dimostrato che la cedolare secca in Italia è coerente con la legislazione europea.

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“La necessità di garantire l’effettiva riscossione delle imposte costituisce un motivo imperativo di interesse pubblico in grado di giustificare una restrizione alla libera prestazione di servizi” si è letto nella sentenza. il giudice polacco nel suo parere non vincolante alla sentenza ha inoltre scritto: “La ritenuta alla fonte (o la deduzione fiscale) è una misura fiscale di natura tecnica universalmente utilizzata che non solo permette di garantire l’effettiva riscossione delle imposte, ma costituisce anche una misura che consente una maggiore semplificazione e certezza giuridica per i contribuenti”.

“Società di informazione, non di intermediazione immobiliare”

In questa vicenda non mancano problemi e contraddizioni nell’interpretazione della natura del capitalismo digitale. Quattro anni fa, ad esempio, la stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito in un’altra sentenza che Airbnb è un servizio di informazione, non una società immobiliare, ed è quindi esente dalle norme che regolano le attività degli agenti immobiliari.

Fu quella un’importante vittoria per Airbnb. La Corte discusse allora un reclamo dell’Associazione per il Turismo e l’Alloggio Professionale, un’organizzazione della lobby alberghiera francese, secondo la quale Airbnb avrebbe dovuto essere considerato un agente immobiliare che faceva, e fa, concorrenza sleale alle catene degli hotel, grandi e piccoli. Per la Corte invece lo Stato francese non avrebbe dovuto chiedere a Airbnb di possedere una licenza immobiliare, poiché essa si limita a mettere in contatto le persone, non a fornire alloggi. In altre parole si tratta di un servizio di intermediazione che, per mezzo di una piattaforma elettronica, guadagna dalla relazione tra potenziali ospiti con padroni di casa professionisti o non professionisti che offrono alloggi a breve termine.

Questa sentenza, considerata definitiva, non contrasta evidentemente con quella del 2022, né tanto meno con l’azione della procura milanese di ieri che intende fare rispettare un orientamento ormai acquisito nella legislazione. Una piattaforma come Airbnb può continuare ad essere considerata una “società di informazione” – cosa che evidentemente non è – ed essere perseguita per evasione fiscale su un’attività di intermediazione online dell’ospitalità a breve termine. E’ un’altra dimostrazione dell’ambivalenza strategica in cui si muovono le multinazionali digitali che intendono “disrompere” (disrupt, in inglese) il diritto esistente, piegandolo pian piano alle proprie esigenze oligo-monopoliste anche i monopoli esistenti.

A proposito di Uber

Il conflitto tra capitalismo di piattaforma e diritto multilivello ha prodotto esiti non univoci e contraddittori. Nel 2017, ad esempio, fu il turno di Uber. E, pur nella differenza del settore, la Corte di giustizia europea prese una decisione diametralmente opposta rispetto a quanto ha deciso rispetto alla natura di Airbnb.  La corte che ha sede in Lussemburgo decise che Uber sarebbe una società di servizi di trasporto e deve accettare le norme più severe applicate alle società di taxi in Europa. Questa azienda, hanno sostenuto i giudici,  “ha esercitato un’influenza decisiva sulle condizioni di fornitura dei servizi di trasporto”, compresa la definizione delle tariffe e delle condizioni di lavoro. I giudici hanno ritenuto che senza l’app, è improbabile che passeggeri e autisti si mettano in contatto. Al contrario, i proprietari di immobili sulla piattaforma Airbnb stabiliscono le proprie tariffe e condizioni, e gli affittuari e i proprietari hanno molti altri modi per trovarsi l’un l’altro.

Il dilemma dell'”equa” concorrenza

Il problema di fondo che hanno i magistrati è quello della concorrenza. Devono applicare un diritto, pur in mancanza di una legislazione vincolante sia a livello nazionale che sovranazionale, che cerca di contemperare il profitto e la regolazione del capitale rispetto alle esigenze pubbliche dell’erario. Ammesso che questo sia possibile, resta tutto da vedere quale dovrebbe essere l’impatto sostenibile per il vivere sociale e civile nelle città devastate dalle piattaforme, e dall’economia dell’appropriazione e della rendita che ha trasformato i proprietari di case in micro-capitalisti immobiliari, per di più soggetti alla concorrenza sleale creata da soggetti molto più grandi di loro che usano Airbnb per creare il proprio mercato. Tutto questo resta un buco nero nel quale prospera la nuova forma del capitalismo.

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Pur in presenza di simili contraddizioni, la Corte di giustizia europea cerca di schierarsi per lo più dalla parte dei paesi che cercano di regolamentare Airbnb. Ciò non è sufficiente però per evitare di trasformare le città in un parco giochi a disposizione dell’economia estrattiva della turistificazione. I centri delle città, storiche o meno, italiane ne sono una dolorosa testimonianza.