Dopo giorni di colloqui inconcludenti, John McDonnell, cancelliere ombra dello scacchiere e sodale politico di Jeremy Corbyn, ha definito «positivo» e «costruttivo» il dialogo con i Tory David Lidington e Michael Gove per sbloccare la paralisi parlamentare su Brexit. In discussione la parte “leggera” dell’accordo, la cosiddetta dichiarazione politica, una sessantina di pagine prive di valore legale che abbozzano l’assetto dei futuri rapporti commerciali fra le parti. Gli incontri continueranno nell’arco dei prossimi dieci giorni.

La paralisi politica in cui è situata Theresa May l’ha costretta a convocare l’altrimenti impensabile convergenza Tory-Labour per discutere di un possibile terreno comune sul quale riproporre alla Camera l’accordo di divorzio, mutato quel tanto da permettergli di scampare a una quarta bocciatura di seguito. Finora su questi mutamenti i due partiti non si sono trovati d’accordo, soprattutto perché Theresa May non transige soprattutto su una delle sue cosiddette «linee rosse»: l’unione doganale, nella cui permanenza il Labour vorrebbe mantenere il paese e che proteggerebbe da tariffe gli scambi fra le parti. A questo è legato l’appoggio condizionale che l’opposizione sarebbe disposta a fornire pur di far passare l’accordo, giacché per tre volte May non è finora riuscita a mobilitare compattamente il proprio partito a suo favore.

Stremato, ottuso, esaurito com’è, i sei mesi di posticipo Brexit al prossimo 31 ottobre – data in cui appropriatamente ricorre la festiva scempiaggine ormai nota come halloween – ha dato po’ di ossigeno al parlamento britannico. Quello di cui hanno disperatamente bisogno i parlamentari britannici infatti, compresa soprattutto Theresa “Alexa” May, è soprattutto una vacanza dall’edificio Westminster con le sue impalcature, i suoi scricchiolii strutturali e istituzionali, i presidi dell’attivismo dentro/fuori, le troupe televisive accampate in pianta ormai stabile, come per attendere l’inutile nascita di un aristo-baby che non nasce mai. Ma la nuova scadenza significa anche che il Paese, nel caso in cui il parlamento non avesse ancora approvato il maledetto accordo, dovrebbe partecipare alle elezioni europee il prossimo 23 maggio. Una prospettiva grottesca per alcuni, ma una relativa benedizione per altri.

Come per esempio Nigel Farage. Farage è uno di quei politici/partiti rigorosamente contemporanei che legano la propria ragion d’essere a un obiettivo unico, semplice, banale, quasi sempre contro qualcosa. L’inaspettata vittoria del referendum, il 23 giugno 2016, lo aveva condannato a un meritato oblio, e persino a sperare qualche incarico diplomatico fra il suo Paese e gli Usa di Trump, che l’aveva invitato a visitarlo ben prima di Theresa May dopo la sua elezione alla Casa Bianca. Cosa che però non si è materializzata, mentre il suo ex-partito, l’Ukip, degenerava apertamente verso la destra fasciorazzista aprendo le proprie fila a personaggi come l’ex English Defence League Tommy Robinson.

Ma ora che la retorica della pugnalata alla schiena e del tradimento gli viene servita su un piatto d’argento dalla perfida Ue e dall’inetta May, Nigel sarebbe un fesso a tirarsi indietro.

Eccolo dunque ieri presentare il suo nuovo partito che si chiama Brexit Party, in onore alla complessità del momento presente. Tra gli sconosciuti candidati, la sorella dell’ineffabile Jacob Rees-Mogg, Annunziata, il cui nome da sacrestia tradisce l’ultracattolicesimo di famiglia (sono figli dell’ex direttore del Times William, pio, Tory e fondamentalista euroscettico come i pargoli). Farage ha negato che dietro l’operazione ci siano i denari illegalmente ammassati del faccendiere Arron Banks, già inquisito per fondi destinati alla mendace campagna del leave e per aver finanziato in toto lo stesso Ukip. Al posto dei milioni – evasi o elusi che siano – di Banks, Farage ha sbandierato le 750mila sterline in piccole donazioni già ricevute, un segnale che già da solo basta a far venire un bel mal di testa ai conservatori.