Bentornati a Brexit, la serie televisiva che fa sembrare quelle di Netflix avvincenti come il televideo. Riassunto delle puntate precedenti. Nelle ultime cinque settimane Theresa May è sopravvissuta a due sfiducie, una da leader conservatrice, l’altra da capo del governo. La bozza di accordo da lei siglata per gestire la British Exit è ormai usata come fermaporta. May stessa ha la stessa autorità di un trumeau di Downing Street, lo ha dimostrato ieri Michael Gove – ministro dell’ambiente e propagandista leave – che ha fatto un discorso prima della fiducia la cui retorica di terza mano lasciava intravedere la propria candidatura, come a dire: «Ti salvo ora pur di succederti tra poco».

Insomma, quella di mercoledì è stata una parentesi da Brexit che serviva solo a scongiurare il governo socialista di cui la Gran Bretagna ha disperato bisogno. Gustato l’effimero sollievo dello scampato pericolo, la sceneggiata può riprendere a pieno regime. E diventa perfettamente visibile quanto la famigerata risolutezza di May sia proporzionale alla sua mediocrità politica.

 È inamovibile anche e soprattutto dopo i 230 voti contro con cui il suo accordo è stato bocciato. Non cambia le cosiddette “linee rosse” che potrebbero tirare fuori Westminster dalla prospettiva di Escher in cui è prigioniero. Ma ha avviato delle “consultazioni” non si sa bene su cosa, dato che l’unico suo reale interlocutore, Jeremy Corbyn, prima di sedersi a qualunque tavolo vuole che si escluda qualsiasi rischio di quel no deal che evoca code interminabili di autoarticolati a Dover e carenza di latte, burro, uova e medicinali. Questo May, sempre più in balia dei brexittieri più isterici cui deve la sopravvivenza, non è assolutamente in grado di concederlo nemmeno se volesse.

 

Finora ha incontrato i suoi, i liberaldemocratici, i nazionalisti scozzesi e quelli gallesi, ma senza Corbyn, che invece ancora punta alle elezioni, è difficile vada lontano. Non le resta altro che, con la solita robotica monotonia, ripetere che il suo accordo è l’unica alternativa a un no deal o al puramente inimmaginabile: tradire la volontà popolare espressa dal referendum e restare nell’Ue.

Pubblicherà dunque un altro piano lunedì – il fantomatico piano B – che sarà dibattuto e votato il prossimo 29 gennaio. Sperando che nel frattempo la paura della debacle no deal induca il Parlamento a votare a favore qualunque sia la nuova proposta.

Corbyn ha scritto ai propri deputati di non partecipare al confronto fin quando la premier non cambi idea. Finora ha saputo tenere unito il suo partito nell’accorta manovra di cerchiobottismo che gli ha consentito di tenersi aperte tutte le opzioni con l’obiettivo delle elezioni. Ma non è detto che ci riesca ancora a lungo quando l’ala moderata postblairiana e non – nomi come Hilary Benn, Yvette Cooper e Chuka Umunna fermi sostenitori di un secondo referendum – potrebbe trasgredire le direttive del leader e considerare potenziali disperate aperture della premier verso le richieste basilari del Labour: permanenza nel mercato unico e nell’unione doganale.