In principio fu l’Iraq, oggi è la Libia. Allora sulla gogna del parlamento britannico finì l’allora premier Blair, stavolta tocca a David Cameron. La storia è più o meno la stessa: l’intervento contro la Libia di Gheddafi del marzo 2011, sulla base della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza Onu, non si doveva lanciare.

Presupposti sbagliati, mancata comprensione della situazione reale, strategia incoerente: dopo oltre un anno di inchiesta le accuse mosse dalla Commissione Esteri sono praticamente identiche ai risultati del rapporto Chilcot di luglio sull’invasione dell’Iraq voluta da Blair sotto l’ala protettiva del presidente Usa Bush e della sua guerra permanente e totale.

Punto e a capo. La storia si ripete, gli errori commessi anche, figli di interessi di parte che da subito erompono in tutta la loro gravità: l’Iraq e la Libia sono passati da paesi-canaglie (agli occhi dell’Occidente) a non-Stati, nazioni fallite e dissolte, preda di gruppi, milizie, autorità avversarie. A Baghdad il governo che c’è è corrotto e disfunzionale; a Tripoli l’esecutivo di unità non ha consenso ma nemici esterni e interni che controllano una buona fetta di paese.

Una bolgia tale che lo stesso presidente Usa Obama, in un’intervista al The Atlantic dello scorso marzo, definiva il caos libico «uno spettacolo di merda», messo in piedi da Cameron e l’ex presidente francese Sarkozy, la coppia che decise l’intervento Nato e lo guidò. Dichiarazioni, quelle di Obama, che non hanno aiutato di certo la candidata democratica Hillary Clinton, nel 2011 segretario di Stato. Come non la aiuta il rapporto parlamentare di Londra.

«L’ex premier Cameron – si legge nel rapporto – è in ultima analisi responsabile per la mancanza di una strategia coerente sulla Libia. La strategia britannica è stata fondata su presupposti sbagliati e una comprensione solo parziale della situazione reale».

Torna in ballo un lavoro di intelligence inadeguato (che “ingannò” già il predecessore) che non permise al premier di capire l’errore di forzare un cambio di regime senza che ci fosse un’alternativa reale, egualmente stabile e accettata dalla popolazione e dalle tribù che gestiscono la Libia. Non lo sapeva l’intelligence, ma lo sapevano i tanti analisti, quotidiani, società civili che si opposero alla guerra.

«Il risultato dell’intervento è stato un crollo economico e politico, scontri tribali e tra milizie, crisi umanitarie, ondate di rifugiati, violazioni dei diritti umani, dispersione delle armi del regime di Gheddafi in tutta la regione e ascesa dello Stato Islamico in Africa settentrionale».

Il sud del paese è in mano a milizie tribali e islamiste che gestiscono il traffico di esseri umani e di armi; l’Isis si amplia nelle zone desertiche attirando combattenti da Africa sub-sahariana e Maghreb; la Cirenaica è controllata dal generale Haftar che, ultima conquista, ha preso possesso dei quattro principali porti petroliferi lungo la costa da Sirte a Bengasi; la popolazione vive tra crisi economica e servizi assenti.

Londra non è accorta di nulla, pare, né ha voluto usare gli stretti contatti che aveva con il regime libico (Blair, in particolare, conversava frequentemente con Gheddafi, l’ultima volta nel febbraio 2011). Non si è accorta della certa destabilizzazione di un paese che si reggeva sul fragile equilibrio di sistemi clientelari, né della sicura apertura delle porte libiche ai gruppi islamisti che già imperversavano in Medio Oriente e Nord Africa. Quelli a cui Gheddafi non ha mai permesso di crescere ed espandersi nel paese.

«Non c’era bisogno del senno di poi per capire che gruppi islamisti avrebbero sfruttato la ribellione, le connessioni libiche con gruppi estremisti transnazionali erano note prima del 2011», scrive la Commissione di fronte alla quale Cameron ha sempre rifiutato di presentarsi, per poi dire in altre occasioni che la colpa vera pesa sul popolo libico che non ha approfittato dell’occasione che gli è stata data.

Questa l’eredità lasciata da Cameron in politica estera. La stessa di Sarkozy. La Francia non ha imparato la lezione: negli ultimi mesi ha sostenuto con truppe sul campo il generale Haftar, capo dell’esercito del parlamento di Tobruk avverso al governo di unità voluto dall’Onu. Di nuovo interessi di parte (energetici) hanno la meglio, spingendo verso la definitiva disgregazione. A rispondere alla Commissione è il Ministero degli Esteri: «Gheddafi era imprevedibile e aveva mezzi e motivi per portare avanti le sue minacce». Non specifica quali: all’epoca il colonnello, da paria della comunità internazionale, era stato riaccolto con tutti gli onori.