È stato presentato alla camera dei deputati, sottoscritto dai capigruppo di tutte le componenti della maggioranza, il testo della proposta di legge costituzionale di modifica degli articoli 57 e 83 della Costituzione. La richiesta di riduzione a 25 anni dell’elettorato passivo per il senato dovrebbe invece essere inserita come emendamento al disegno di legge costituzionale sulla riduzione a 18 anni dell’elettorato attivo per il senato, già approvato dalla camera e attualmente all’esame in prima commissione al senato. Entro dicembre, infine, è prevista la presentazione della nuova proposta in materia elettorale.

Con la modifica dell’articolo 57 si vuole sostituire il riferimento alla «base regionale» già prevista nella Costituzione per l’elezione dei senatori con una più generica «base circoscrizionale». In tal modo si lascia alla legge ordinaria la determinazione dell’ambito territoriale per l’elezione dei membri del senato. La ragione di questa scelta è data dall’esigenza di assicurare una rappresentatività plurale anche dopo la riduzione del numero dei senatori nei diversi territori del paese. In effetti, il vigente sistema elettorale, ove non venisse modificato, non garantirebbe una adeguata rappresentanza delle minoranze in diverse parti del territorio nazionale, nonché renderebbe gli attuali collegi uninominali del tutto disomogenei con grave lesione del principio di eguaglianza e rappresentatività nel voto. Ma non si doveva cambiare la legge elettorale?

È anomalo questo modo di procedere e – forse – indicativo di una cattiva coscienza. Si modifica la Costituzione per adeguarla ad una normativa ordinaria che si è deciso di trasformare. L’occhio è puntato sull’oggi, non confidando sul domani. Che senso avrà la riforma se poi si dovesse adottare un sistema proporzionale di lista, ovvero si dovessero ridurre le dimensioni dei collegi uninominali, ad esempio estendendone il numero, bilanciandone con maggior rigore l’ampiezza?
Così facendo, peraltro, si sconta la perdita di una delle ragioni di fondo del bicameralismo, che risiede appunto in una prima camera di rappresentanza nazionale (camera dei deputati) e in una seconda che dà voce anche alle istanze regionali. Vero è che il riferimento costituzionale alle regioni non è mai stato sviluppato, ma appare anomalo che scompaia proprio in un momento ove le rivendicazioni particolaristiche si stanno sviluppando con fin troppo clamore (vedi l’autonomia differenziata).

Con la modifica dell’articolo 83, invece, si vuole ridurre il numero dei delegati regionali per l’elezione del presidente della Repubblica. Anche in questo caso la giustificazione è nella riduzione del numero dei parlamentari che scomporrebbe l’equilibrio tra rappresentanti parlamentari e degli enti territoriali. A ben vedere, almeno sino ad ora, le delegazioni regionali non hanno mai costituito problema essendo in sintonia con gli equilibri espressi dal resto del parlamento in seduta comune. D’altronde la partecipazione dei delegati delle regioni all’elezione presidenziale ha una sua specifica ragion d’essere di natura fondamentalmente simbolica, ma non indifferente. Il Capo dello Stato rappresenta l’intera «unità nazionale» è per questo che in Assemblea costituente si sono voluti coinvolgere i rappresentanti dei territori. È una esigenza superata? Non è dato sapere. La proposta di modifica del testo costituzionale non deriva infatti da una rimeditazione della questione, ma sembra solo il frutto di un automatismo. Poiché si sono ridotti di un terzo i parlamentari «è indispensabile», si scrive assertivamente nella relazione illustrativa, operare «in maniera analoga» per i rappresentati regionali. Una questione di pura matematica, dunque, che trova forse una sua spiegazione in chiave funzionalista, ma che evita di confrontarsi sul piano più impegnativo e serio dei valori costituzionali che si pongono alla base delle scelte e delle proposte formulate.

Anche il progetto di equiparazione dell’età dell’elettorato attivo e passivo per entrambi i rami del parlamento sembra motivata da ragioni di carattere funzionale, con poca attenzione ai riflessi che tali particolari misure produrranno sull’assetto costituzionale complessivo. In tal modo le due camere sarebbero veramente la fotocopia l’una dell’altra. Fa riflettere che a proporlo siano esponenti politici che hanno sempre criticato il «bicameralismo perfetto», sostenendo la tesi della necessità di differenziare le funzioni tra i due rami del parlamento. Ora, archiviata la questione, ci si rassegna ad introdurre un «bicameralismo perfettissimo». Se si volesse essere conseguenti si dovrebbe giungere – finalmente – a quella che rappresenta «la più lineare delle soluzioni» (come ebbe a scrivere Pietro Ingrao in tempi lontani): si abbia il coraggio di introdurre il monocameralismo, adottando un sistema rigorosamente proporzionale, riunendo magari i quattrocento deputati con i duecento senatori. Un modo radicale per riscoprire la centralità del parlamento, per di più in sintonia con la insistita richiesta di riduzione del numero complessivo dei parlamentari. Fornendo ad essa finalmente un senso costituzionalmente coerente.

Non sembra questa la strada prescelta. C’è da temere invece che si stiano modificando articoli della Costituzione solo perché non si è in grado di riaffermare la primazia del parlamento, né di «avviare un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale», così come stabilito nelle linee programmatiche dell’attuale maggioranza di governo.
In ogni caso la vera partita riguarderà la legge elettorale, che ancora non è alle viste. Solo a quel punto capiremo meglio dove volge il vento.