È una corsa. Contro il tempo da parte delle forze di sicurezza israeliane che intendono prendere al più presto, «vivi o morti», i sei prigionieri palestinesi protagonisti della fuga di Capodanno (ebraico) dal carcere di massima sicurezza di Gilboa.  E dei palestinesi contro la caccia all’uomo in corso in queste ore che rischia di vanificare una evasione vista da tutta la popolazione dei Territori come una dimostrazione di astuzia e coraggio di detenuti politici contro l’occupante israeliano. In Cisgiordania ieri sono stati lanciati appelli affinché sia offerta assistenza agli evasi e avvertimenti nei confronti di coloro che potrebbero consegnarli a Israele.

Sono 89 i posti di blocco che esercito e polizia hanno eretto tra Israele e la Cisgiordania mentre proseguono ovunque i rastrellamenti con l’ausilio di elicotteri e cani. I servizi di intelligence israeliani puntano sull’interrogatorio di persone che potrebbero aver aiutato i sei prigionieri a far perdere le loro tracce dopo l’uscita dal tunnel oltre il muro di cinta del carcere. A Naura, non lontano da Jenin, la città di cui sono originari tutti gli evasi, sono stati arrestati tre palestinesi che, secondo i media israeliani, avrebbero avuto un ruolo nella fuga. Sono stati anche interrogati i familiari di due dei fuggitivi. Ma 48 ore dopo l’evasione le autorità israeliane hanno in mano poco o nulla e ieri circolavano insistenti voci secondo cui Zakaria Zubeidi, l’ex comandante delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah), la Primula Rossa della seconda Intifada, e gli altri cinque evasi, sarebbero in Giordania. Emergono inoltre nuovi particolari di una delle più clamorose evasioni della storia di Israele. I sei non hanno dovuto scavare più di tanto perché hanno sfruttato un difetto strutturale delle fondamenta del carcere. Inoltre, hanno guadagnato tempo prezioso dopo la fuga perché le guardie alle torrette del carcere in quel momento dormivano. A tre chilometri dalla prigione, gli evasi hanno trovato almeno un’auto ad attenderli.

Gli israeliani vogliono catturarli subito e impedire che trovino rifugio all’interno di Jenin e di altre città palestinesi. In quel caso dovrebbero mettere in piedi una ampia operazione militare per prenderli che inevitabilmente incontrerebbe la resistenza di migliaia di palestinesi intenzionati a proteggere gli evasi. In queste ore è sotto pressione anche l’Autorità nazionale palestinese. Legata al coordinamento di sicurezza con Israele previsto dagli Accordi di Oslo (1993-4), l’Anp è tenuta a consegnare all’esercito di occupazione i fuggitivi nel caso si rifugiassero all’interno delle aree A, le zone autonome sotto il suo controllo. Un aiuto a Israele che finirebbe per provocare nuove lacerazioni tra palestinesi e conseguenze devastanti per la stabilità dell’Anp già priva di consenso popolare. Il Jihad islami, in cui militano cinque dei sei evasi, ieri ha avvertito che l’occupazione «pagherà un prezzo pesante» se ucciderà i sei evasi. Ha quindi aggiunto «non vogliamo sentire che qualche partito ha causato il loro ritorno in prigione». Un riferimento evidente all’Anp.

Intanto il 14 settembre è prevista presso il tribunale militare di Ramallah, la prima udienza del processo contro 14 agenti dell’intelligence dell’Anp che la procura ritiene coinvolti nel pestaggio a morte, lo scorso 24 giugno, di Nizar Banat, un oppositore dell’Anp. La notizia non ha suscitato reazioni particolari. I 14 agenti, pensano gran parte dei palestinesi, sono un capro espiatorio volto a coprire le responsabilità politiche, ad alto livello, dell’omicidio di Nizar Banat.