Lo scorso 24 luglio l’esecutivo comunitario ha presentato il suo quinto rapporto sullo Stato di diritto nell’Unione e l’Ungheria si è confermata fanalino di coda nei diversi ambiti presi in considerazione dagli esaminatori. Quattro i temi fondamentali dell’indagine: la situazione del comparto giudiziario, con un’attenzione particolare all’indipendenza di questo settore, al grado di efficienza dei suoi strumenti e alla qualità del suo funzionamento, la lotta alla corruzione, la libertà e il pluralismo dei media e il sistema dei “pesi e contrappesi” istituzionali, ossia quello che garantisce la divisione dei poteri.

Lo stato membro che ha ricevuto il maggior numero di raccomandazioni è stato ancora una volta l’Ungheria che ne ha collezionato ben otto. Come riferito da Europa Today dello scorso 24 luglio, è risultato che il paese danubiano non ha realizzato progressi in svariati settori che vanno dalla lotta alla corruzione all’indipendenza dei media passando per la riforma sul lobbismo alla sicurezza dello spazio pubblico; voce quest’ultima che considera tra le altre cose le intimidazioni nei confronti di attivisti che operano nell’ambito della difesa dei diritti umani. Presentato alla stampa dalla commissaria alla Trasparenza Vera Jourová e dal commissario alla Giustizia Didier Reynders, il rapporto ha concluso, nel caso dell’Ungheria, che “non sono state adottate nuove misure per risolvere le questioni in sospeso relative allo Stato di diritto e alla lotta alla corruzione”. Per questo motivo i fondi Ue spettanti a Budapest restano bloccati. Una parte di essi era stata scongelata l’anno scorso grazie ad una riforma sulla giustizia che era stata apprezzata con cautela da Bruxelles e che comunque viene considerata solo uno dei pochi passi avanti fatti dal paese in termini di difesa dello Stato di diritto. Del resto la Commissione europea continua a manifestare inquietudine per quella che vede come persistente influenza politica sulla procura e per le campagne diffamatorie a mezzo stampa nei confronti dei magistrati.

Come anticipato, le prestazioni dell’Ungheria governata da Viktor Orbán sono risultate tutt’altro che soddisfacenti nel campo della lotta alla corruzione, date anche le mancate indagini sulle accuse di corruzione nelle alte sfere, al livello di apparati statali; altro aspetto che continua ad essere un motivo di seria preoccupazione da parte di Bruxelles. Risulta, poi, che poco o niente è stato fatto per risolvere il problema delle carenze relative al finanziamento dei partiti politici e delle campagne elettorali.

Resta molto critica anche la situazione della libertà e del pluralismo del comparto mediatico che soffre di frequenti campagne diffamatorie nei confronti di giornalisti e organi di stampa indipendenti colpevoli di criticare il governo. Si parla di campagne sponsorizzate e organizzate in modo più o meno diretto dal potere politico.

Se l’Ungheria continua a vestire la “maglia nera”, la Polonia mostra, secondo Bruxelles, segni di miglioramento in diversi campi. Tutto questo dalla fine del governo del PiS durato otto anni e dal ritorno al potere di Donald Tusk, una vecchia conoscenza delle istituzioni comunitarie.

La Commissione europea mostra di apprezzare il nuovo Piano d’azione sullo Stato di diritto approntato dall’attuale governo che intende affrontare una serie di problemi sollevati nell’ambito dell’indipendenza giudiziaria e della separazione delle funzioni. A parere degli esaminatori non sono stati fatti progressi di rilievo in termini di lotta alla corruzione ad alti livelli e di norme riguardanti le lobby, mentre è stato riconosciuto un miglioramento generale intervenuto nel settore dell’informazione.

In conclusione, quanto fatto da Varsavia finora, dal cambio di governo, è stato giudicato sufficiente da Bruxelles per chiudere, nel suo caso, la procedura ex Articolo 7 avviata alla fine del 2017. Questo vuol dire che, allo stato attuale delle cose, l’Ungheria è l’unico paese membro tuttora gravato da tale procedura. Una decisione politica, secondo Orbán e i suoi, che non ha niente a che vedere con la difesa dello Stato di diritto ma che intende solo punire un paese che, in nome del principio di sovranità nazionale, respinge le ingerenze di Bruxelles.