Vi è spesso la tendenza a legare il nome di Rupert Brooke a quelli di Wilfred Owen, Siegfried Sassoon e Isaac Rosenberg, come se i poeti inglesi caduti nel primo conflitto mondiale formassero un gruppo omogeneo. In realtà, benché accomunati da una morte prematura, essi ebbero esperienze di vita e retroterra culturali molto diversi, oltre a poetiche e stili assai differenti. Prendiamo Rosenberg: piccolo e sgraziato, ebreo di origine russa, cresciuto nel quartiere più povero di Londra e inizialmente più portato per le arti pittoriche, che finirà ucciso, da soldato semplice, in uno sperduto campo di Francia e che nelle sue poesie denuncia l’assurdità e l’inutilità della guerra, disgustato dal sangue, dalla sporcizia, dalla violenza.

E prendiamo, appunto, Brooke: incarnazione degli ideali fisici britannici, bello come un dio greco, di famiglia colta e benestante, prima brillante studente di Rugby (dov’era nato nel 1887) e di Cambridge, e poi attore, poeta e critico letterario, perfettamente inserito nella società edoardiana più esclusiva, amico di Churchill e Keynes, E.M. Forster e Henry James, vicino, anche se mai membro effettivo, al gruppo di Bloomsbury. Brooke, arruolatosi da ufficiale sotto l’egida di Churchill, la guerra vera non farà nemmeno tempo a vederla, morendo di setticemia alla vigilia del disastroso sbarco di Gallipoli senza aver mai messo piede in una trincea o sparato un colpo. Ma quella manciata di sonetti imbevuti di idealismo e di retorica – che non sono certo la parte migliore della sua produzione, e forse si spiegano proprio con la mancata esperienza diretta del combattimento – lo renderà immortale agli occhi dell’Inghilterra, che farà di lui un eroe della patria attraverso un processo di mitopoiesi nazionalista che forse neppure lo stesso Brooke avrebbe voluto.

Ad aiutarci a ritrovare l’uomo e l’artista oscurato dal mito ci ha pensato Paola Tonussi con una nuova e avvincente biografia (Rupert Brooke Lo splendore delle ombre, Edizioni Ares, pp. 354, euro 24,80), che restituisce al lettore un ragazzo che, pur avendo avuto in sorte genio e straordinaria bellezza, era pieno di fragilità e insicurezze, facile agli entusiasmi come alla depressione, tormentato nelle relazioni amorose, benché ogni donna – e uomo – paresse cadere ai suoi piedi. Tonussi scrive con stile molto lirico e ispirato, a tratti impressionista, il che potrebbe far pensare a un ritratto sentimentale più che a un rigoroso studio biografico. In realtà, si tratta di un lavoro serio e ben documentato. Semplicemente, l’autrice non ha paura di mostrare la propria passione per il soggetto, e non sente il bisogno di fingere distacco nei confronti di un uomo il cui fascino apollineo è difficilmente resistibile.

Tonussi ci guida nella vita di Brooke immergendosi nei suoi ambienti, percorrendo le strade che lui ha percorso, respirando l’aria che lui ha respirato, ma non dimentica di essere precisa nelle informazioni biografiche e acuta nell’analisi dei suoi versi, che compaiono in abbondanza in tutto il libro, ben tradotti (lei stessa, un paio d’anni fa, ha curato una bella antologia dei war poets). Il maggior merito del libro è proprio l’invito a riscoprire la delicata poesia di Brooke, prima offuscata dalla retorica post mortem e poi frettolosamente accantonata con l’emergere dei modernismi del primo dopoguerra.