L’approssimarsi minaccioso del no deal il prossimo 31 ottobre ha inasprito i toni in questi ultimi scampoli di trattativa. Secondo una fonte di Downing Street, nella conversazione telefonica di ieri mattina con Johnson, Merkel avrebbe definito l’accordo «quasi del tutto improbabile», ma Berlino si è ben guardata dal confermare o smentire la voce. Aumentano i sospetti che l’abbia mesa in giro l’arcistratega Dominic Cummings per esacerbare gli animi. Puntuale gli ha fatto eco il roco cinguettio del presidente della Commissione europea Donald Tusk, in latino caudato: «In ballo non c’è la vittoria in uno sciocco scaricabarile. Non volete un accordo, non volete un’estensione, non volete la revoca [dell’articolo 50, ndr] Quo vadis?». Johnson non saprà forse dove andare, ma la sterlina e la borsa sì: in avvitamento verso il basso.

Ed ecco che sempre più realistico il no deal impone una rapida fabbricazione del capro espiatorio: nessuno ne vuole essere responsabile. «A questo punto un accordo è impossibile», l’Ue non ha voluto cedere di un centimetro, protestano a Downing Street. Johnson è ancora soggetto al Benn Act, da lui ribattezzato “atto di resa” qualora non ottenga un accordo entro il 19 ottobre, data del prossimo vertice Ue: legalmente deve richiedere una proroga a Bruxelles ma non si sa ancora se o come lo farà. Intanto, ufficialmente le trattative continuano. I canonici tentativi di ammorbidimento dei toni vengono dal capo negoziatore Ue Michel Barnier – sempre via Twitter, dopo aver incontrato il ministro degli affari europei Vincenzo Amendola – e dal ministro degli Esteri irlandese Simon Coveney: non ascoltate le voci non confermate che girano, il governo irlandese sta lavorando a testa bassa con l’Ue per raggiungere un accordo che porti a una Brexit ordinata il 31 ottobre, ma non a tutti i costi ha detto Coveney. Ma «La Gran Bretagna ha delle responsabilità nell’isola d’Irlanda e Brexit le deve riconoscere. Un no deal non sarà mai una scelta irlandese o europea ma esclusivamente del governo britannico».

Con il frenetico sbiadirsi delle possibilità di un accordo – oggi mancano ventidue giorni alla data fatidica – il cancelliere Michael Gove, ex-sodale di Johnson responsabile della transizione Brexit, riferiva in parlamento circa i piani di preparazione governativi. Il suo Rapporto sulla preparazione al no-deal, 159 pagine, punta a convincere gli scettici dell’effettiva esistenza di quella cosa chiamata, appunto, preparazione, su cui le opposizioni hanno lungamente strigliato il governo. Soprattutto per quanto riguarda generi di prima necessita come cibo e farmaci. Per assicurare il rifornimento dei più importanti fra questi ultimi sarà istituita un’unità di supporto per i fornitori di medicine, mentre lo stoccaggio d’emergenza di farmaci importanti è iniziato. Quanto ai generi alimentari, secondo il rapporto di Gove non ci saranno ammanchi gravi, solo una ridotta quantità di ortaggi e frutta. L’autorità fiscale nazionale, Hmrc, ha diffuso a questo proposito un prontuario presso 220mila imprese su come fronteggiare Brexit.

Quanto alla libera circolazione delle persone, il no deal vi porrà senz’altro fine per essere sostituito – nel gennaio 2021 – da un sistema a punti analogo a quello australiano basato «su capacità e talento». Dopo il 31 ottobre, gli europei già residenti in Uk «continueranno a poter lavorare, studiare e avere accesso ai sussidi e servizi» come l’assistenza sanitaria. La scadenza per richiedere il settled status è il 31 dicembre 2020. Chi vuole entrare dopo quella data dovrà richiedere un permesso temporaneo a rimanere dal nome involontariamente ironico: il cosiddetto European Temporary Leave to Remain. Fino al 2021 i cittadini europei continueranno a poter entrare con la propria carta d’identità.

Il Labour galoppa a passo di carica contro Johnson. Keir Stermer, il moderato, pro secondo referendum ministro ombra per Brexit, ha apertamente accusato il governo di aver messo sul tavolo una serie di proposte irricevibili tanto per uscire il 31 ottobre senza accordo, mentre l’ex frangia destra di euroscettico-lunatici che ora ha preso saldamente le redini del partito conservatore incolpa ovviamente il parlamento, reo di aver fiaccato il potere contrattuale di Londra con il surrender act, ovvero la legge della resa, come l’ha chiamata immediatamente Johnson.