Ieri è stato il giorno della Brexit election, le terze elezioni politiche in meno di cinque anni in Gran Bretagna. Si è votato dalle sette del mattino alle dieci di sera nei 650 collegi sparsi fra Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord e Scozia suddivisi in decine di migliaia di seggi elettorali. Scriviamo mentre ancora all’oscuro dei primi risultati degli exit poll, che saranno diffusi dopo le ventitré, ora italiana. In un clima plumbeo non solo meteorologicamente – queste elezioni sono l’amaro calice della paralisi parlamentare su Brexit – in alcuni seggi ci sono state lunghe code, fatto abbastanza inedito. E ieri erano ancora moltissimi gli indecisi.

Nell’inflazione di “cruciali” appuntamenti con la storia attraversati dal paese dal 2016, queste elezioni lo sono davvero: per liberare Brexit dalle secche parlamentari che la intrappolano bisognava cambiare il parlamento. Ed è esclusivamente su questo che il premier Boris Johnson ha puntato la campagna dei conservatori: appellandosi agli scontenti leaver del suo, ma anche del partito laburista. L’uninominale secco in auge qui significa che tutto si gioca nei seggi cosiddetti marginali, quelli che fluttuano fra un partito e l’altro. Una maggioranza per Johnson anche solo di una trentina di collegi sui 326 necessari – ampiamente preconizzata dai sondaggi – disincaglierebbe l’accordo di uscita dall’Ue che il Parlamento gli aveva ripetutamente bocciato e rimetterebbe in corso la British Exit. Per ottenerla deve strappare consensi in aree Labour tradizionali come il Nord dell’Inghilterra, il Galles e le Midlands attraverso il voto cosiddetto tattico. Questo significherebbe trasformare la special relationship in aperto vassallaggio nei confronti degli Usa di Trump e il paese in una specie di Singapore pornoliberista in aperta concorrenza con l’Europa su tutto. I nove punti di vantaggio sul Labour di Corbyn dei sondaggi autorizzano a immaginare un simile scenario, ma anche quello di governo di minoranza o hung parliament, un parlamento senza una maggioranza. In questo caso avrebbe bisogno di un appoggio esterno come accadde nel 2017, quando Theresa May si mise nelle (rapaci) mani del Dup, gli unionisti nordirlandesi, nel cosiddetto confidence and supply agreement.

MA NON È ANCORA DETTO. Se la sconfitta annunciata di Corbyn fosse smentita da uno scenario in cui i Tories prendono meno di 310 seggi e i colloqui per formare un governo di minoranza o di Csa di Johnson fallissero, Corbyn potrebbe ancora salire a Downing Street a capo di una coalizione pro-secondo referendum sostenuta dallo Snp di Nicola Sturgeon (avversi anima e corpo all’uscita dall’Ue), dai Libdem e dai nazionalisti gallesi del Plaid Cymru. In questo caso, le speranze dei remainer riemergerebbero dai fondali in cui sono ultimamente sprofondate, soprattutto dopo lo sgonfiamento dei Libdem di Jo Swinson che si erano inizialmente prefissati di abrogare Brexit del tutto.

COME VUOLE LA LEGGE, ieri i microfoni elettorali sono rimasti muti per non influenzare i cittadini che esercitano la propria facoltà di voto in una giornata cominciata con i vari leader ripresi nei rispettivi seggi. Ai media, sociali e di massa, non è rimasto altro che concentrarsi sullo stupidario di cani, gatti e criceti in attesa dei padroni intenti a votare. Ma se mai ci fosse, lo sperato colpo di scena del balzo in avanti Labour si dovrebbe proprio ai media sociali: se quelli di massa, posseduti da miliardari impostori terrorizzati dalle imposte, hanno fatto di tutto per distruggere Corbyn, è proprio attraverso un’intelligente campagna orchestrata dai millennials di Momentum che si è riusciti ad avvicinare alla politica e al voto socialista le nuove generazioni nate nella melma della post-politica. Oltre al fatto, naturalmente, che Corbyn ha ammorbidito di molto le sue posizioni su Brexit e sulla difesa (Nato, Trident) per farsi digerire dai delicati stomaci della maggioranza ex-silenziosa. A questo si deve l’appoggio ufficiale ottenuto dal Guardian (all’undicesima ora ovviamente) e una certa indulgenza perfino dalle colonne del Financial Times, ormai preda di un lacrimevole pentimento keynesiano. Senza omettere, come al solito, l’imparziale Bbc che suona il piffero ai vincitori, con in prima fila la “bravissima” Laura Kuenssberg: sempre filo-tory, rigorosamente a sua insaputa.