Reduce da otto anni di silenzio letterario, Adam Thirlwell aveva finora tenuto in serbo la sua verve sperimentale per le opere «minori» (una novella  composta secondo una successione di variazioni tipografiche, un libro collettivo scritto in sessanta lingue, una rubrica iper-letteraria su «Esquire»). Con il suo quarto romanzo, Il futuro futuro (traduzione di Andrea Buzzi, Feltrinelli, pp. 284, € 19,00) ha trovato in Inghilterra un’accoglienza insolitamente discorde: il «Guardian», per esempio, gli ha dedicato ben due lunghe recensioni, molto diverse l’una dall’altra: la prima è una secca (e seccata) stroncatura. La seconda, pubblicata tre settimane dopo, è un’analisi più sottile che termina con un encomio: «Anche quando non ero sicuro di cosa Thirlwell stesse facendo –scrive Mark O’Connell –  avevo chiara la sensazione che nel farlo fosse bravissimo». In effetti, c’è molto di sfuggente nel romanzo, che nella moltitudine di scenari e elementi che andranno a comporlo, lascia affiorare il sospetto di una qualche impostura, come se si sentisse il falsetto di un narratore in malafede, e di un coro dei personaggi più stonato ancora di quanto la trama non riveli a un primo sguardo.

Vi si racconta di una donna, Celine (senza accento), vittima – siamo in una strana Parigi dell’età rivoluzionaria – di un anonimo quanto misterioso «attacco» che la trasforma nella protagonista di una serie di pubblicazioni pornografiche clandestine. La giovane donna si trasforma, attraverso un processo mentale volutamente occultato o restituito dal narratore solo per accenni, in una rivoluzionaria, o piuttosto nella sua parodia. Da qui via via si rivela uno scenario narrativo contraddittorio: le amiche di Celine scambiano conversazioni «in chat», usano con disinvoltura la parola «fascista» e altri anacronismi (divertenti da leggere), e si vestono e parlano come donne del XXI secolo a New York. Si insinuano tra le righe i segni di uno spaziotempo astorico nel quale tutto avviene o è avvenuto nello stesso istante. Il narratore si spiega attraverso espressioni sempre più aforistiche e astratte, e già dopo la prima parte (un centinaio di pagine) il lettore comincia a domandarsi, letteralmente, cosa diavolo stia succedendo.

Assecondando un discorso pseudoscientifico sulle «connessioni di tutto con tutto», fra teoria dell’informazione e semiologia, il libro sfida apertamente il lettore ad avventurarsi in un ambiente testuale rarefatto, nel quale l’indeterminazione deve essere accettata come un dato intrinseco del testo. Tutto così si giustifica: un viaggio di Celine sulla Luna, una visita ai nativi Mohawks oppressi da George Washington, incursioni nelle rivolte anticoloniali di ogni parte del mondo. La figlia di Celine, ormai adulta (era nata non molte pagine prima), prende la parola per esprimere il senso di quanto letto fin lì: «Il vero futuro non è quanto avverrà di qui a un mese o un anno», dice, ma piuttosto «il futuro futuro: alieno, e incomunicabile».

Quanto più le vie linguistiche e compositive del Futuro futuro si fanno impreviste e affascinanti nel proporre al lettore questo nuovo tipo di «patto», tanto più si avvicina allo spirito del tempo (letterario) la materia narrativa messa in campo: dalla fluidità di genere, alla rivoluzione ecologica, al riscatto sociale declinato secondo i dettami del femminismo più aggiornato. Certo, la voce ironica del narratore sembra essa stessa assumere un tono dubitativo: la visione del futuro anteriore di Thirlwell si risolve così in un anti-racconto filosofico che cerca di riflettere il nostro mondo di rimbalzo, attraverso l’evocazione di galassie lontane, come nel Micromega di Voltaire – la cui ombra giustifica l’ambientazione del romanzo in una specie di Francia settecentesca virata al punk –, rinunciando a fornire la lente per leggere i segreti della vita come se fossero un libro stampato, e fornendo in cambio un deliberato caos narrativo, che, pur disorientando dalla prima all’ultima pagina, finisce per restituire una indicazione tutto sommato precisa: non importa quanto possa aumentare il disordine all’interno di un sistema complesso, né se la proliferazione della «infosfera» ha ricoperto il mondo come una mostruosa foresta tropicale nella quale districarsi è diventato improbo: alcune cose hanno, e avranno fino all’ultimo, più senso di altre. Resta solo da capire quali.