All’unanimità, ieri, gli ambasciatori dei 27 paesi Ue hanno approvato l’accordo sulle relazioni future tra il blocco e la Gran Bretagna, concluso in un rush finale quasi alla scadenza dei tempi, la vigilia di Natale, il 24 dicembre, dopo 11 mesi di trattative, che hanno fatto seguito a 4 anni di tensioni e tentennamenti dopo il referendum del giugno 2016. L’adozione formale da parte degli stati membri della Ue dell’accordo che diventa legge il 1° gennaio 2021 deve avvenire entro il primo pomeriggio di oggi. Westminster vota mercoledì.

L’approvazione del Parlamento europeo non potrà però avvenire in tempo per il 31 dicembre, così si apre dal 1° gennaio un periodo di applicazione provvisoria dell’accordo: gli europarlamentari voteranno alla prima seduta plenaria del nuovo anno, nella terza settimana di gennaio (con un “sì” o con un “no”, non sono previsti emendamenti).

Nei prossimi giorni, arriveranno nei vari paesi le traduzioni delle 1.246 pagine del testo dell’accordo, a cui vanno aggiunte disposizioni sull’energia nucleare e sugli scambi di informazioni tra servizi segreti, oltre a una serie di dichiarazioni comuni. Il Consiglio ha tempo fino al 28 febbraio per la decisione finale sull’entrata in vigore del deal (se ci saranno ritardi dovrà essere negoziato tra Bruxelles e Londra un nuovo rinvio del periodo transitorio).

Il premier britannico, che esalta una vittoria per Londra, si è rivolto ieri al presidente del Consiglio Ue, Charles Michel sottolineando «il nuovo punto di partenza delle nostre relazioni tra eguali sovrani, aspettiamo con impazienza la ratifica finale di questo accordo e il nostro lavoro comune sulle priorità condivise, come la lotta contro il cambiamento climatico».

L’accordo fornisce un quadro generale per gli scambi commerciali futuri, senza allineamento legislativo ma con un’uniformità di nozioni giuridiche, che lascia però ampio spazio a molto probabili contenziosi.

Nelle ultime settimane si è parlato soprattutto della pesca, dove all’ultimo minuto è intervenuta un’intesa più vicina alle richieste della Ue che alle domande di Londra (ci sono 5 anni e mezzo per arrivare a una diminuzione del 25% del pescato europeo nelle acque britanniche, mentre la Gran Bretagna era partita con l’idea di una riduzione almeno del 60%). I pescatori francesi sono mediamente soddisfatti. C’è tempo per ridiscutere, visto che i britannici esportano nella Ue il 70% di quello che pescano e quindi la dipendenza è reciproca.

Ma il terreno dove è più probabile prevedere tensioni è quello, ben più importante, della concorrenza: per poter beneficiare di un commercio senza quote né diritti doganali, la Ue ha chiesto garanzie per scambi «equi», per quanto riguarda gli aiuti di stato, le sovvenzioni e il rispetto delle norme sociali e ambientali. L’accordo prevede che ogni parte – Ue e Gran Bretagna – decida del proprio regime di aiuti di stato (era una richiesta di Londra), ma impone un quadro di principi comuni. La Gran Bretagna avrà un’autorità indipendente di controllo sulle sovvenzioni pubbliche e potranno venire contestati aiuti di stato non considerati equi di fronte alle giurisdizioni nazionali. In caso di disaccordo, ci sarà un processo di mediazione e di consultazione (ci sono 23 sotto-comitati congiunti Ue-Gran Bretagna). L’accordo prevede possibili misure unilaterali di ritorsione da entrambe le parti nel caso in cui le sovvenzioni alterino «in modo significativo» il commercio e gli investimenti, con l’imposizione di tariffe doganali comprese (anche per altri prodotti rispetto a quelli in causa).

Come chiesto da Londra, l’ultima istanza non sarà la Corte di Giustizia europea (che rimarrà attiva solo per l’Irlanda del Nord, che resta nell’unione doganale), ma un tribunale arbitrario, come esiste negli accordi con il Canada e il Giappone, una «giustizia privata» che solleva molte critiche. Nell’accordo c’è anche una clausola di «non regressione» sul diritto del lavoro e sulle norme ambientali. Dall’accordo resta fuori la City, cioè la finanza, tra le principali attività inglesi (un milione di posti di lavoro). La Ue si consola: non ci sarà una Singapore sul Tamigi perché il Covid sta rimettendo in primo piano lo stato e gli investimenti pubblici.