Da poco si sono spenti in Francia i riflettori sulle celebrazioni per il duecentesimo anniversario della morte di Napoleone Buonaparte che già fervono i preparativi per onorare un’altra importante ricorrenza: i due secoli dalla pubblicazione della Lettre à M. Dacier, con la quale Jean-François Champollion il 27 Settembre 1822 comunicava alla comunità scientifica di aver carpito, dopo quattro anni di lavoro, il sistema per interpretare il geroglifico egiziano. Gli incroci della storia hanno voluto che i due personaggi – il genio militare e il filologo prodigioso –, apparentemente accomunati da null’altro che una vaga contemporaneità, fossero invece legati da un inatteso fil rouge.

Fu infatti grazie alle baionette del generale corso che la civiltà faraonica, fino allora rimasta sostanzialmente misteriosa, venne riscoperta dall’Occidente. Oltre alle fedeli mezze-brigate della Campagna d’Italia, Buonaparte portò con sé in Egitto un nutrito numero di studiosi ed eruditi, che nel breve periodo dell’occupazione francese tra il 1798 e il 1801 raccolsero un’eccezionale documentazione, confluita poi nella monumentale Description de l’Égypte, considerata l’opera fondante dell’egittologia francese. E più ancora, si deve a un ufficiale dell’Armée d’Orient, il tenente del genio Pierre-François-Xavier Bouchard, la scoperta fortuita di quella che si sarebbe rivelata la chiave di volta della comprensione dei geroglifici egiziani.

Ahmed Youssef, direttore del Centre des Études du Moyen-Orient (Cemo) di Parigi, ha recentemente dedicato a questa figura misconosciuta ma fondamentale per l’egittologia moderna, il volume Le capitaine Bouchard, cet inconnu qui a découvert la pierre de Rosette Suivi de Journal de guerre inédit “La chute d’El-Arich” (L’Harmattan, pp. 194, euro 20,00) che, per la prima volta, ne raccoglie la biografia e l’inedito giornale di guerra redatto durante l’assedio di Al-Arish nel dicembre 1799. Il libro è in gran parte consacrato al periodo di servizio in Egitto e in Siria, passando tuttavia sotto silenzio la successiva partecipazione di Bouchard alla spedizione di Saint-Domingue (1801-1803) e alla guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814).

Naturalmente, Youssef pone particolare enfasi sulla narrazione della fortunata scoperta della pietra di Rosetta. Durante l’estate 1799, Bouchard, ex-allievo dell’École polytechnique ed esperto nell’arte della fortificazione, fu impegnato nel rimodernamento del vecchio forte di Rashid (Rosetta), fatto erigere nel XV secolo dal sultano mamelucco Qaitbay. Qui, nel corso dei lavori di livellamento del terreno della corte interna, gli operai portarono alla luce un grosso frammento di granodiorite nera che portava inciso un testo redatto in greco e in egiziano con grafia geroglifica e demotica, allora non ancora decifrate. L’ufficiale francese, riuscendo a leggere alcuni passaggi dell’iscrizione greca, comprese immediatamente l’importanza della stele. Il generale Jacques François Menou, comandante della piazza di Rosetta, ordinò dunque a Bouchard di realizzare delle impronte dell’iscrizione e di scortare il reperto al Cairo presso l’Insitut d’Égypte, recentemente fondato da Buonaparte, per essere esaminato dagli studiosi francesi. La scoperta generò un’ondata di entusiasmo nell’ambiente scientifico, sapientemente amplificata dalla stampa dell’epoca.

Anche i Britannici erano ben consci dell’inestimabile valore scientifico del reperto, ragion per cui, all’indomani della capitolazione dell’Armée d’Orient ad Alessandria, ne imposero la confisca e il trasporto in Inghilterra come bottino di guerra. Esposta da quel momento al British Museum, la Stele porta ancora oggi su un lato la scritta «Catturata in Egitto dall’Esercito Britannico 1801», testimone del traumatico passaggio di mano che anticipava le spogliazioni che di lì a poco sarebbero diventate consuetudine nelle avventure coloniali delle potenze europee. Youssef nel suo libro parla chiaramente di «esilio della pietra di Rosetta» e d’altra parte, le recenti e controverse dichiarazioni del noto egittologo Zahi Hawass riguardo la sua restituzione al governo egiziano dimostrano che questa ferita non si è mai totalmente rimarginata.

Champollion dunque poté contare solo sulle riproduzioni della Stele – egli infatti non vide mai l’originale – per vincere la vera e propria corsa al deciframento che nel frattempo si era sviluppata intorno al reperto. Sebbene in un primo momento Thomas Young, scienziato ed egittologo inglese di grande fama, avesse collaborato con il filologo francese all’impresa, in un secondo momento i rapporti tra i due si erano raffreddati a tal punto che i loro studi erano proseguiti indipendentemente tra reciproci sospetti. Alla luce dei rapporti tesi tra Gran Bretagna e Francia, la contesa non fece che rinfocolare la rivalità tra le due nazioni anche sul piano accademico. Nonostante i buoni progressi di Young, fu però Champollion a penetrare i segreti dei geroglifici grazie al vantaggio di aver appreso perfettamente in gioventù il copto, estremo esito dell’egiziano antico, utilizzato come lingua liturgica dai cristiani ortodossi dell’Egitto.

Dopo la pubblicazione della Lettre à M. Dacier, a dispetto della pretesa di Young di veder riconosciuto anche il suo contributo come determinante per l’interpretazione dei geroglifici, Champollion compì due viaggi in Italia tra il 1824 e il 1826, al fine di corroborare le sue ipotesi, applicandole ai documenti originali conservati nelle collezioni italiane. Si soffermò in particolare a Torino, dove era recentemente arrivata dall’Egitto la grande raccolta di antichità acquistata dal re Carlo Felice dal console di Francia Bernardino Drovetti.

Il definitivo banco di prova del sistema di traduzione proposto da Champollion, fu il corpus dei testi scolpiti e dipinti sui monumenti della valle del Nilo, che il filologo francese poté visitare una sola volta tra il 1828 e il 1829, prima che una prematura morte ne terminasse la brillante carriera. Insieme a lui, a capo di una spedizione scientifica franco-toscana, seconda in ordine di tempo solo a quella napoleonica, vi era Ippolito Rosellini, padre dell’egittologia italiana. Parve così chiudersi un cerchio che aveva avuto origine dalla fallimentare spedizione egiziana di Buonaparte di trent’anni prima. Dalle ceneri della guerra rivoluzionaria era rinata, come una fenice, la civiltà faraonica.