Si riaccende in Bolivia il conflitto attorno al Tipnis, il Territorio Indigeno e Parco Nazionale Isiboro Sécure, minacciato dalla costruzione di una strada di 306 chilometri tra i dipartimenti di Cochabamba e Beni: la strada Villa Tunari-San Ignacio de Moxos, il cui secondo tratto taglierebbe in due il parco, sulla cui superficie di 1,2 milioni di ettari vivono 68 comunità indigene.

LA LEGGE 266 per «la protezione e lo sviluppo integrale e sostenibile» del Tipnis, promulgata il 13 agosto dal presidente Evo Morales, prevede «l’apertura di vie, di autostrade e di sistemi di navigazione fluviale e aerea», annullando quell’intangibilità del territorio indigeno che il presidente si era deciso a proclamare nell’ottobre del 2011, dopo quasi tre mesi di proteste, culminate in una marcia di 65 giorni (violentemente repressa dalle forze dell’ordine) organizzata dai popoli indigeni dell’Amazzonia, convinti che la strada favorisca l’invasione dei cocaleros, lo sfruttamento petrolifero, la deforestazione e l’ampliamento delle monocolture.

Una tormentata vicenda che rimanda all’enorme difficoltà, anche da parte del governo boliviano, di conciliare un modello a bassa crescita economica con la soddisfazione delle necessità di base di tutta la popolazione. È, del resto, proprio questa incapacità di tracciare cammini di transizione verso una società post-capitalista (ed ecosocialista) il principale nodo irrisolto dei governi progressisti latinoamericani, i quali, al di là delle incontestabili misure a favore delle fasce più povere (come pure delle conquiste in termini di processo di integrazione e di sovranità politica latinoamericana, oggi tuttavia in crisi) hanno finito per ripiegare verso il consolidamento di un modello, comunemente definito «estrattivista», centrato sull’accaparramento – da parte di grandi interessi privati nazionali e stranieri, ma anche dello stato – delle risorse presenti sui territori, contro gli interessi delle comunità locali e degli ecosistemi in cui esse vivono (che si tratti dell’industria degli idrocarburi e dei metalli preziosi o di monocolture di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto o di grandi infrastrutture necessarie all’esportazione).

UN MODELLO di produzione, estrazione ed esportazione di materie prime senza valore aggiunto in base alle richieste del mercato internazionale, dai cui interessi queste economie hanno finito per dipendere in maniera crescente, come apparso fin troppo chiaro dinanzi alla caduta del prezzo del petrolio e delle materie prime (e con l’ulteriore rischio di sostituire l’influenza nordamericana con quella del nuovo imperialismo cinese).

Così, se, nel caso della Bolivia, il governo di Evo Morales appare di gran lunga il migliore della storia del Paese – non solo per i successi in ambito macroeconomico, ma anche per il rinnovato protagonismo dello stato, per i massicci investimenti nelle politiche sociali e per il prestigio, prima impensabile, conquistato a livello internazionale -, l’impulso al modello estrattivista garantito dal presidente si è posto sempre più drammaticamente in contraddizione con l’obiettivo professato di un Socialismo Comunitario del Buen Vivir, in grado di coniugare le bandiere dell’uguaglianza e della giustizia con il progetto di ricostituzione delle comunità e delle nazioni originarie, come pure con l’appassionata difesa della Pachamama, la Madre Terra, portata avanti da Morales in tutte le sedi internazionali.

E PER QUANTO il vicepresidente García Linera parli di un estrattivismo solo temporaneo, diretto a consentire l’accumulazione di risorse indispensabile per promuovere poi l’industrializzazione del Paese e raggiungere il Buen Vivir – principio ispirato alle cosmovisioni e ai modelli di vita comunitaria dei popoli indigeni e incorporato nella stessa Costituzione del paese –, la realtà parla invece non solo di distruzione crescente, nel nome dello «sviluppo» e del «progresso», degli ecosistemi e delle condizioni di vita delle popolazioni locali ma anche di delegittimazione, quando non di criminalizzazione, dei movimenti sociali critici nei confronti del governo, soprattutto quelli degli indigeni dell’Amazzonia (quelli dell’Altopiano, come i quechua e gli aymara, appoggiano ancora in maggioranza il presidente) accusati di voler fare i «guardaboschi» dei paesi sviluppati, di «fare il gioco della destra», o di esserne addirittura l’espressione.

NON A CASO, durante l’atto pubblico in cui ha promulgato la contestata legge, Evo Morales non solo si è scagliato contro l’«ambientalismo colonialista» di alcune Ong, accusandole di lucrare sulla povertà degli indigeni, ma ha anche denunciato, dietro la difesa dell’area protetta, la presenza di interessi internazionali e di piccoli gruppi decisi a lasciare «tutto come 300 anni fa».