«Milioni di persone sono cadute in povertà e non hanno certezze sulla disponibilità di cibo. Un sondaggio sull’area rurale di tutta l’India ha evidenziato che molte famiglie hanno ridotto i propri pasti giornalieri. Le donne e le ragazze sono le più colpite: mangiano per ultime e in minore quantità a causa delle disuguaglianze nella condivisione del cibo all’interno della casa».

Così l’economista indiana Bina Agarwal ci spiega, in poche parole, l’effetto della crisi pandemica indiana sul più generale allargamento delle diseguaglianze sociali ed economiche. In questo l’India non rappresenta affatto un unicum nel mondo.

Ne abbiamo discusso con Agarwal, docente di Economia e Ambiente all’Università di Manchester e premio Balzan 2017 per gli studi di genere, in occasione dell’uscita del suo libro Disuguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo, edito da Il Mulino, il primo pubblicato in Italia da Agarwal e incentrato sul tema dell’agricoltura, dei diritti alla proprietà terriera e l’ambiente visti da una prospettiva di genere.

La pandemia ha avuto un effetto diverso su uomini e donne in termini economici e sociali. Quanto è ampio questo divario e quanto incide la combinazione di razza, genere e classe sociale?

In India il 90% delle donne e l’86% degli uomini che lavorano appartengono al settore informale. Tuttavia, le donne hanno meno scelta rispetto agli uomini, essendo impiegate sia nelle aree rurali che in quelle urbane in lavori sottopagati e non sicuri. Nelle aree urbane lavorano maggiormente come venditrici in strada, domestiche, operaie nell’edilizia e nel settore manifatturiero. Nelle aree rurali si sostengono prevalentemente con il lavoro nei campi, lavorando nell’azienda agricola di famiglia o come operaie agricole. Entrambe le categorie di lavoratrici sono state colpite negativamente, anche se in modo diverso. Il lockdown severo imposto dal 25 marzo 2020 ha provocato una forte disoccupazione. Sia gli uomini che le donne hanno perso il lavoro, ma le donne in particolare non sono state in grado di riprendersi dopo il lockdown. Un gran numero, tra cui più di tre milioni di lavoratrici domestiche, è tornato dalle città ai propri villaggi per non tornare più indietro. Il lavoro domestico, in quanto occupazione «a contatto ravvicinato», è stato particolarmente penalizzato durante la pandemia.

Quando le famiglie perdono i mezzi di sostentamento, fanno ricorso ai risparmi e ai prestiti. Vari studi hanno riportato che la maggior parte delle donne che lavorano autonomamente hanno avuto bisogno di chiedere prestiti a parenti, amici e usurai. Alcune hanno iniziato a vendere il bestiame e ciò che avevano in magazzino e potrebbero presto essere costrette a vendere carretti o bancarelle, che sono gli strumenti di lavoro dei venditori ambulanti. Ciò renderebbe la ripresa molto difficile. L’aiuto economico del governo di 500 rupie (6-7 dollari) al mese per le donne povere ha raggiunto meno del 40% di donne che avevano i requisiti, a causa della mancanza di conti correnti bancari dedicati alla ricezione della somma. Nelle aree rurali durante il lockdown molti agricoltori non hanno potuto procurarsi forza lavoro per il raccolto o per la vendita, nonostante l’agricoltura sia stata meno colpita rispetto ad altri settori.

L’economista indiana Bina Agarwal

Qual è stato l’effetto della pandemia sulle donne delle zone rurali e quelle nelle zone urbane, in termini di perdita di lavoro e di accesso agli strumenti economici? In India si è assistito a un ampio spostamento dalle città alle campagne.

In India si stima che ci siano 60 milioni di lavoratori migranti, di cui il 20% sono donne. L’improvviso lockdown a marzo 2020 ha provocato un ritorno in massa ai villaggi d’origine. Migliaia di persone hanno camminato per centinaia di chilometri, dal momento che i mezzi di trasporto non erano disponibili. Il ritorno di milioni di uomini migranti ha decisamente aumentato il carico di lavoro rurale delle donne, non solo per quanto riguarda cucinare e pulire, ma anche per la raccolta di legna nelle foreste locali (uno dei maggiori combustibili che serve per cucinare) e per andare a prendere l’acqua (se la casa non dispone di acqua corrente). Alcuni dei migranti che sono tornati hanno trovato lavoro grazie al Mahatma Gandhi National Rural Employment Guarantee Scheme del governo, che garantisce 100 giorni di lavoro manuale per famiglia all’anno. Ma non c’erano abbastanza posti di lavoro disponibili per tutti. Nei mesi scorsi, molti degli uomini sono tornati nelle città, ma la maggior parte delle donne non sono ancora state ri-assunte. Inoltre, al momento stiamo affrontando una violenta seconda ondata e ancora molti migranti stanno ritornando ai loro paesi.

Nelle famiglie si è registrato pressoché ovunque un aumento delle violenze domestiche e di genere che, unito alla perdita del lavoro, incrementa il livello di dipendenza delle donne. Si può parlare di un arretramento che potrebbe dimostrarsi strutturale?

Anche in India è aumentata la violenza domestica, nonostante i dati ufficiali siano sottostimati. Molte donne non hanno un telefono cellulare personale e la possibilità di denunciare in modo riservato una violenza. La posizione delle donne nelle famiglie è colpita non solo dalla loro perdita del lavoro, ma anche da quella dei loro mariti. La mia ricerca dimostra che le donne sono decisamente più a rischio di violenza domestica, se i loro mariti sono disoccupati. Se questo sia un ostacolo a lungo termine dipenderà in base a quanto velocemente si riprenderà l’economia e aumenteranno i mezzi di sostentamento. Credo sia importante rafforzare le diverse opportunità di lavoro nell’India rurale post pandemia. Per esempio, l’allevamento del bestiame, il mercato del pesce, le foreste – settori associati all’agricoltura – rappresentano il 26%, 5.5% e 8.5% del valore aggiunto lordo dall’agricoltura. Le donne giocano un ruolo importante in tutti questi settori: sono quelle che si occupano maggiormente del bestiame e della produzione del latte. L’India è il secondo produttore al mondo di acquacoltura, dando impiego a 13.5 milioni di persone, 32% delle quali sono donne. Nel 2017-18 il mercato del pesce è cresciuto dell’11.9%. C’è un grande potenziale in questo settore, specialmente se gruppi di donne gestiscono le pescherie.

Analogamente l’India ha un grande programma di gestione comunitaria delle foreste. La protezione delle foreste, le piantagioni, il mantenimento della biodiversità e l’ecoturismo possono creare milioni di posti di lavoro, specialmente per le donne che vivono nelle campagne che dipendono dalle foreste per la legna, il cibo e altri prodotti forestali. Possiedono anche una profonda conoscenza dell’ecologia locale.

Nei suoi più recenti interventi, ha spiegato come le donne organizzate in cooperative o imprese comuni nelle zone rurali (l’esempio dei 30mila gruppi di donne del Kerala) abbiano subito perdite molti minori se non nulle. Può spiegarcene i motivi?

Globalmente per quanto riguarda la commercializzazione le cooperative sono prevalenti, ma io sto enfatizzando la cooperazione nella produzione. Le donne in Kerala stanno facendo agricoltura in gruppo. In 5 o 6 formano un gruppo e mettono insieme terra, forza lavoro e capitale, e condividono i costi e i profitti. Nel 1998 quando il Kerala ha lanciato la propria State Poverty Eradication Mission (Kudumbashree Mission), essa era focalizzata su imprese di gruppo femminili, includendo gruppi che operavano in agricoltura. Durante la pandemia, un grande numero di agricoltori individuali non hanno trovato forza lavoro per mietere il raccolto o trasportarlo per venderlo.

Al contrario l’87% dei circa 30mila gruppi di donne che stavano coltivando a marzo 2020 sono riusciti a ottenere un giusto ricavo. La maggior parte avevano abbastanza braccia per mietere il raccolto. Chi coltivava riso lo ha poi venduto alle associazioni delle comunità agricole del riso o alle cooperative del governo, mentre circa 12mila gruppi hanno venduto verdura e frutta alle migliaia di mense dei poveri, a loro volta gestite da gruppi di donne del Kudumbashree. Questa «convergenza» di mezzi di sostentamento agricoli e di misure di sussidio di cibo è stata efficace.

Incremento delle diseguaglianze ed eccessivo sfruttamento del pianeta sono temi profondamente legati, soprattutto alla luce dell’impatto sulle comunità più vulnerabili. Quale il sistema economico che permetterebbe un riequilibrio sia in termini di eguaglianza che di difesa dell’ambiente?

Io posso parlare in merito all’agricoltura. Dobbiamo cambiare il modo in cui coltiviamo, allontanandoci dall’agricoltura commerciale altamente chimica a sistemi più ecologicamente sostenibili gestiti da piccoli agricoltori. Ciò comporterà molti cambiamenti. Abbiamo bisogno di un’agricoltura agro-ecologica con una grande diversità di colture e con pochi se non zero prodotti chimici. Dobbiamo fermare l’eccessivo sfruttamento delle falde acquifere e incoraggiare la raccolta dell’acqua piovana o la micro-irrigazione. L’Asia ha molti metodi antichi e moderni di coltivare con l’utilizzo dell’acqua piovana. L’irrigazione a goccia può permettere un uso efficiente dell’acqua. Inoltre, abbiamo bisogno di una ricerca a livello internazionale sui semi e le colture resistenti ai climi estremi.

Ma soprattutto dobbiamo spingere gli agricoltori a cooperare gli uni con gli altri. Circa l’84% degli agricoltori in 111 paesi coltivano meno di due ettari. La cooperazione attraverso l’agricoltura di gruppo può portare a economie di scala, risparmio di costi e forza lavoro, e condivisione del rischio. Inoltre, la cooperazione è essenziale per preservare il terreno, utilizzare l’acqua piovana per il raccolto e intraprendere un piano di coltivazione ecologica. Questi passi faranno crescere la produttività agricola, aumentando la sicurezza alimentare e creando mezzi di sostentamento sostenibili per le persone vulnerabili.