Nei Balcani, gli Stati uniti calano il poker. Si tratta di Christopher Hill, braccio destro di Richard Holbrooke, principale negoziatore degli accordi di Dayton che misero fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina e inviato speciale Usa in Kosovo, dove ebbe un ruolo di primo piano nelle trattative che precedettero la conferenza di Rambouillet nel 1999.
Il presidente  Joe Biden ha voluto l’ambasciatore «oscuro», come lo ribattezzò il quotidiano di Belgrado Nasa Borba, uomo di pace e di guerra, alla guida dell’ambasciata statunitense in Serbia. Un ritorno, quello di Hill nei Balcani, indicativo della volontà di Washington di trovare un accordo tra Kosovo e Serbia che metta fine a un conflitto congelato da più di vent’anni, ma che contribuisca soprattutto a garantire la stabilità in una regione divenuta troppo permeabile all’influenza di diversi attori e di uno in particolare: la Cina.

Un’anteprima confusa, raffazzonata, del nuovo corso della politica americana nei Balcani l’avevamo già avuta con l’amministrazione Trump, artefice degli accordi di Washington, firmati nel settembre dello scorso anno, con cui si tentava di porre un argine all’espansione di Pechino nell’area, imponendo a Pristina e soprattutto a Belgrado l’obbligo di estromettere Huawei dallo sviluppo delle proprie reti 5G. Diverso nel metodo, ma non nell’obiettivo, Biden cerca ora di portare a casa un’intesa tra Belgrado e Pristina, facendo leva su un’Unione europea sempre più riluttante a imbarcare nuovi Paesi e incapace di gestire le diverse crisi che attraversano la regione.

Come quella esplosa il mese scorso nel Kosovo del Nord, a maggioranza serba, dopo la decisione del governo di Pristina di imporre l’uso di una targa provvisoria ai veicoli con targa serba in circolazione sul territorio del Paese, in linea con un analogo obbligo per le auto kosovare che fanno ingresso in Serbia. Alla crisi, disinnescata da una tregua firmata a Bruxelles sotto la supervisione dell’inviato americano per i Balcani, Gabriel Escobar, hanno fatto seguito nuove tensioni. A scatenare le proteste della popolazione serba, un’operazione della polizia kosovara contro il contrabbando delle merci, estesa a diverse città in tutto il Paese.
Una nuova fiammata che si è riverberata anche in sede diplomatica, quella del Consiglio di sicurezza dell’Onu, per l’esattezza. In una sessione di routine, convocata per presentare l’ultimo rapporto semestrale sull’attività della missione Onu in Kosovo (Unmik), è andato in scena uno scontro durissimo tra il ministro degli esteri serbo, Nikola Selakovic, e la presidente kosovara, Vjosa Osmani. Selakovic si è opposto al tentativo di imporre quello che ha definito un «equilibrio artificiale» tra le parti, con le richieste di reciprocità e riconoscimento da parte di Pristina, sottolineando la necessità della presenza internazionale in Kosovo. Di diverso avviso, Osmani che ha chiesto di mettere fine alla Unmik e di consentire a Pristina di accedere alle principali organizzazioni internazionali. Il Kosovo, ha detto Osmani, intende proseguire nel dialogo con la Serbia, ma con l’obiettivo di raggiungere il mutuo riconoscimento.

L’inasprimento dei toni tradisce un certo nervosismo da parte della dirigenza kosovara che non è riuscita a replicare lo straordinario successo incassato alle elezioni di febbraio alle amministrative svoltesi domenica scorsa: i candidati di Vetevendosje, partito del premier, Albin Kurti, non hanno vinto in nessun comune al primo turno, anche se in alcune città, andranno al ballottaggio come prima forza. D’altro canto, anche Belgrado, senza una prospettiva europea credibile, è tentata di far saltare il banco di un’intesa che costerebbe troppo a una leadership già delegittimata, con il rischio di un’ulteriore stretta autoritaria