Bertolucci era il più francofilo dei nostri cineasti. Eppure il suo rapporto con la Nouvelle Vague è al tempo stesso evidente ed oscuro. La Nouvelle Vague è più un concetto della sociologia che della teoria del cinema. In un certo senso vuol dire semplicemente giovinezza. E Bertolucci è chiaramente uno dei giovani del nostro cinema (vale a dire del cinema che si è sviluppato nel dopoguerra). E se si prende quest’espressione come termine generico, nel senso di modo nuovo o di modernità (il fantasma di fondo di tutto il Rivette critico) è chiaro che Bertolucci è la nostra Nouvelle Vague, che con altri compagni di strada, paralleli o secanti – Pasolini, Bellocchio, Pietrangeli – ha contribuito a costruire, sulle ceneri del neorealismo il nostro cinema d’autore.

MA QUANDO si va a pensare più precisamente questo rapporto, le cose si complicano. Quello della Nouvelle Vague francese è un gruppo al tempo stesso ristretto e eterogeneo. Che hanno in comune Godard, Truffaut, Chabrol, Rivette e Rohmer? La città di Parigi? L’odio per il cinema della «qualità francese»? Il rifiuto del teatro di posa? L’uso di ambientazioni reali? L’ammirazione per il cinema americano di genere? E per il neorealismo ? Ancora, si tratta di elementi molto superficiali. In Bertolucci vivono quasi tutti ma più come un dopo che come un prima del suo cinema. Bertolucci sembra sempre ritrovarli in cantina, in un armadio impolverato, avvolti da mille coperte, come il bellissimo autoritratto di Io e te. La Nouvelle Vague per Bertolucci è da subito uno strano passato, un cimelio, un abito passato di moda che si indossa per ridere. In Ultimo Tango a Parigi c’è quasi tutta la Nouvelle vague. Ma non è un ultimo tango, un ultimo tocco, un ritorno alla vita. La musica è già finita. La Nouvelle Vague non c’è più, è un fantasma, un vecchio appartamento vuoto. L’appartamento parigino riappare molti anni dopo in uno dei film meno amati di Bernardo Bertolucci: The Dreamers. Preso troppo rapidamente per un film ingenuo e nostalgico. Accusato di ridurre la rivolta del sessantotto ad un capriccio di figli di papà, apprezzato solo per aver fornito a Philippe Garrel (altro figlio o fratello minore della vecchia Nouvelle Vague) un set per le barricate di Les Amants réguliers. In entrambi, Tango e Dreamers, non sfugge l’incrocio tra America e Francia. La Nouvelle Vague è questo strano innesto di due prodotti che crescono su terreni opposti. Da un lato il cinema americano dei grandi studi, che permetteva ai bordi della grande macchina e pur negli ingranaggi ben codificati dei generi, una strana libertà e perfino una sovversione. Dall’altro il cinema francese che al contrario si sviluppa fuori dagli studi di posa, fuori dall’industria, dentro un artigianato produttivo di piccole strutture d’autore (Le Carrosse di Truffaut, Le Losange di Rohmer…) che paradossalmente hanno tendenza a fare film in serie. E nel mezzo c’è proprio questa nozione, l’autore, che gli uni (gli Americani) incarnano e rifiutano, e che i francesi sognano ma non vivono se non tradendone il senso e l’ambizione (si pensi al tristre messaggio di Effetto Notte).

LA VERITÀ del cinema di Bertolucci è unica perché è il solo cineasta della Nouvelle Vague ad essere diventato Americano, ad aver fatto film Hollywoodiani vivendo l’ebrezza del controllo di una macchina gigantesca. E quindi anche il solo Americano ad essere stato un autore cosciente nel senso della Nouvelle Vague. Bertolucci è al tempo stesso Brando e Jean-Pierre Leaud, Michael Pitt e Louis Garrel. Se la Nouvelle Vague è un sogno o un progetto, allora Bertolucci è stato forse il solo vero autore della Nouvelle Vague.