All’Assemblea Generale dell’Onu Naftali Bennett ieri non ha portato disegni di bombe sul punto di scoppiare come fece qualche anno fa il suo predecessore Benyamin Netanyahu per denunciare il programma nucleare iraniano. Ma il tono da guerra che il premier israeliano ha usato per gran parte del suo discorso non lascia dubbi sulle sue intenzioni. Il programma nucleare iraniano, secondo Bennett, «è a un punto critico. Tutte le linee rosse sono state superate. L’Iran – ha affermato il premier – sta violando gli accordi di salvaguardia dell’Aiea e se la cava. Gli iraniani maltrattano gli ispettori, sabotano le loro indagini e la fanno franca. Arricchiscono l’uranio al 60% e la passano liscia». A suo dire Tehran vorrebbe controllare la regione con l’arma nucleare ma, ha avvertito, «se pensate che possa toccare Israele vi sbagliate… Non permetteremo all’Iran di acquisire l’arma nucleare».

All’Onu Bennett non ha solo voluto ribadire che il suo governo non esiterà ad attaccare l’Iran se e quando lo riterrà necessario, anche senza la partecipazione degli Usa. Questa opzione ha lasciato capire si è fatta più concreta e più vicina. Il «Piano B», l’attacco militare, discusso qualche settimana fa con Joe Biden alla Casa Bianca, giorno dopo giorno prende il posto del «Piano A», la diplomazia, sulla quale l’Amministrazione Biden ha detto di voler puntare prima di ogni altra cosa per rilanciare il Jcpoa, l’accordo sul programma nucleare iraniano da cui gli Usa sono usciti nel 2018 per decisione di Donald Trump. Ma il negoziato stenta a dare risultati, la distanza tra Stati uniti e Iran resta ampia e, secondo Bennett, le possibilità di arrivare a nuovo accordo si sono assottigliate. E questo lascia sul tavolo solo l’opzione militare, anche se l’Iran nega di volersi dotare di ordigni nucleari e non ci sono prove che lo stia facendo in questo momento in segreto come denuncia Tel Aviv. Piuttosto sarebbe Israele a possedere in segreto, lo dicono fonti internazionali, tra cento e duecento bombe atomiche.

Bennett ha pronunciato 23 volte la parola Iran e non ha mai fatto riferimento ai palestinesi che vivono sotto occupazione militare israeliana da 54 anni. E, come nelle previsioni della vigilia, non ha speso una parola per replicare al presidente palestinese Abu Mazen che la scorsa settimana, nel suo discorso all’Onu, aveva intimato a Israele di ritirarsi entro in anno dai Territori palestinesi occupati. Bennett ha preferito elogiare il suo paese che ha descritto come un «faro in un mare in tempesta, un faro di democrazia» e parlato degli israeliani come di un popolo «che vuole condurre una buona vita» e contribuire a un «mondo migliore». Il che significa, ha aggiunto, che di «tanto in tanto (gli israeliani) potrebbero aver bisogno di lasciare il loro lavoro e dire addio alle famiglie per correre sul campo di battaglia».

Un tono assolutorio scelto a poche ore di distanza dall’avvio della campagna repressiva scattata nella Cisgiordania occupata dopo l’uccisione di cinque palestinesi, descritti dall’esercito israeliano e dallo stesso Bennett come militanti di Hamas sul punto di compiere un grave attentato. Si tratta dell’escalation più significativa da maggio, quando le proteste scoppiate nelle città palestinesi all’interno di Israele, in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono sfociate in un nuovo conflitto armato tra lo Stato ebraico e Hamas. Ieri mattina sono stati arrestati cinque palestinesi a Biddu altri nove a Jenin, Arrabe e altre località cisgiordane. Ha lasciato il carcere invece la deputata palestinese e dirigente del Fronte popolare (sinistra) Khalida Jarrar, detenuta per circa due anni.