Dario Franceschini ha preso il posto di Massimo Bray. Il nuovo ministro dovrà subito mettere mano a numerosi provvedimenti e a iniziative, come il Progetto Pompei, dopo le nomine, non prive di problemi, del generale Giovanni Nistri a direttore generale (di fatto non ancora insediato), e del nuovo soprintendente Massimo Osanna. Il rischio di perdere i 105 milioni è sempre in agguato, ma soprattutto quello di perdere definitivamente la credibilità, insieme a uno dei siti archeologici più importanti del mondo.

Un altro nodo da sciogliere è quello della riorganizzazione del ministero, che ha suscitato non poche polemiche. Alcune sue prime dichiarazioni, come l’immancabile riferimento al ‘petrolio’ e a una visione tutta economicistico-turistica dei beni culturali, hanno prodotto in molti una certa delusione, ma sarà bene valutare i fatti.

In vari interventi, si coglie un invito al nuovo ministro per un ritorno alla «normalità» (evidentemente Bray è stato sentito come una «anomalia» all’interno del suo stesso ministero), indicando come priorità la manutenzione ordinaria e l’incremento del personale e dei fondi ordinari per musei, soprintendenze, archivi, biblioteche, etc. Si tratta di obiettivi condividibili, fondamentali, essenziali. Ma possiamo accontentarci del mantenimento dello statu quo o di un anacronistico ritorno a un presunto passato felice dei beni culturali?.

Il ministro di un governo il cui presidente si è presentato alle Camere attribuendosi la volontà di realizzare riforme radicali vorrà essere coerente con tale indirizzo? La riorganizzazione proposta da Bray sulla base dei risultati della Commissione D’Alberti in realtà consiste in una serie di accorpamenti di direzioni generali. È cioè un’operazione di mera razionalizzazione, che rischia di scontentare tutti, sia chi desidera conservare l’attuale assetto sia chi vorrebbe profondamente innovarlo. In realtà questa riorganizzazione nella sostanza introduce pochi cambiamenti reali: conserva lo stesso impianto attuale, accentuando semmai la confusione di funzioni e di ruoli al centro (tra direzioni generali, segretariato, uffici di diretta dipendenza dal ministro) e in periferia (tra direzioni regionali e Soprintendenze). Senza una chiara visione, una riorganizzazione rischia di tradursi in un balletto di poltrone, direzioni, uffici.

Un’operazione tutta interna al ministero, che non tocca i nodi culturali, metodologici e politici del ruolo, significato, «valore» del patrimonio culturale e paesaggistico nella società attuale.

Servirebbe in realtà una riforma radicale, capace di superare l’attuale frammentazione, figlia di una visione antiquaria e accademica, che separa disciplinarmente le architetture, le opere d’arte, i reperti e le stratificazioni archeologiche. Una riforma in grado di dar vita a strutture territoriali miste e multidisciplinari, affermando finalmente una visione olistica, globale, diacronica e contestuale del patrimonio culturale e paesaggistico, ponendo, cioè, il paesaggio (non inteso solo in senso estetico) al centro dell’azione di tutela. Una riforma che favorisca la collaborazione sistematica tra Mibact e Università, che dia garanzie al mondo del precariato professionale dei beni culturali, che riconosca la centralità delle attività di valorizzazione, comunicazione, partecipazione democratica.

Si potrà pure in questo paese innovare radicalmente essendo rispettosi della migliore tradizione? Si potrà, dopo sessant’anni, avere una nuova «Commissione Franceschini», capace, come fu quella degli anni Sessanta, di una nuova proposta qualificata e innovativa, che tenga conto delle straordinarie trasformazioni culturali e metodologiche che la stessa idea di patrimonio culturale e paesaggistico ha conosciuto in questi ultimi decenni? Il ministro ricostituirà rapidamente gli organi consultivi, il Consiglio Superiore e i Comitati tecnico-scientifici? E soprattutto vorrà mettere in atto un progetto realmente innovativo?

Nel Mibact, nelle università, nel mondo delle professioni, nell’associazionismo culturale ci sono le competenze, le idee, le capacità, per un progetto culturale innovativo e condiviso, che finalmente ci faccia uscire dal Novecento (anzi dall’Ottocento!) e ci porti nel XXI secolo. Basterebbe volerle valorizzare al meglio.