«Ciascuno di noi ha vissuto non una, ma dieci vite in questi ultimi due anni» – scriveva Roman Jakobson nel 1920. Uno dei massimi protagonisti di quel burrascoso tempo russo torna ora in primo piano grazie alla partecipe biografia di Bengt Jangfeldt, Una vita in gioco Vladimir Majakovskij e la sua cerchia (Neri Pozza, traduzione di Serena Prina, pp. 636, € 32,00), composta di stralci di lettere, proclami, telegrammi, memorie, brani di articoli: il frutto di decenni di lavoro spesi a catturare la complessa fisionomia di Majakovskij, avvicinato anche grazie a testimonianze raccolte personalmente nel corso di una vita lunga e densa di incontri memorabili. Unite a documenti rinvenuti nei molti archivi setacciati, queste voci danno vita a uno studio equidistante da canonizzazioni o ridimensionamenti, che ci mostra Majakovskij non solo come il poeta in cui si incarna la Rivoluzione, ma come un uomo costantemente impegnato nella sua rivolta contro un’infelicità colossale, alle prese con angherie della vita quotidiana e incomprensioni fatali.

Alternando le movenze di un romanzo a quelle di una cronaca, la figura imponente e struggente che ci viene incontro dalle tante pagine necessarie a ricostruirne i tratti viene sbalzata sullo sfondo di innumerevoli storie, vite, destini, da loro inestricabile: molte esistenze costeggiano il tragitto di Majakovskij, senza riuscire a evitargli il senso di solitudine cosmica che lo porterà al colpo di pistola con cui il 14 aprile del 1930 metterà fine alla sua vita.

Le tante immagini ospitate nel libro, in una compenetrazione assidua e dialogante con il testo, fanno sì che la biografia del poeta sia allestita alla stregua del catalogo di una mostra: fotogrammi di film, disegni, fotomontaggi, frontespizi di rarità bibliografiche, manifesti e soprattutto fotografie formano una specie di album di famiglia allargato – quello della cerchia di letterati e artisti intorno al poeta – che scorre sotto i nostri occhi ricchissimo di scatti privati, sorprendenti per la loro capacità di accrescere la nostra conoscenza del fenomeno Majakovskij («lui non è un uomo, ma un avvenimento», affermava Osip Brik), unicum irripetibile e al tempo stesso espressione corale della cultura russa dei primi tre decenni del XX secolo.

È quando nel racconto irrompono i versi che ne tocchiamo la verità biografica: molte delle opere più importanti di Majakovskij vengono, in queste pagine, ampiamente stralciate, commentate nella loro genesi e struttura, argutamente raccordate le une alle altre, in un’intrinseca, indissolubile mistura di vita e arte.

Due le dominanti cruciali e massimamente tempestose di un cammino che ha sempre l’opzione del suicidio sullo sfondo: la relazione con Lili Brik e il rapporto con le autorità sovietiche. Il legame con la donna il cui nome Majakovskij porta tatuato nel cuore, a cui dedica ogni opera conclusa, va dal 1915 fino alla fine dei suoi giorni, alimentando e condizionandogli tutta la vita, nei tornanti del suo controverso, altalenante rapporto con gli organi del potere, attraverso gli anni della Rivoluzione, della Nep, dell’ascesa di Stalin. Tra conflitti e tributi, compromessi e concessioni.

Del fittissimo dialogo con Lili – amante, amica, lettrice privilegiata e collaboratrice – già ricostruito in modo esaustivo nel carteggio tra i due (L’amore è il cuore di tutte le cose), Bengt Jangfeldt mette in luce i passaggi più significativi, che portano a galla esistenze straordinarie, impegnate in rapporti esclusivi e inclusivi al tempo stesso, in cui lo sforzo di superamento degli stereotipi borghesi si scontra con umanissimi sentimenti di gelosia, rancore, sensi di colpa.

Quanto all’ambivalente relazione tra i vertici dello stato sovietico e il poeta proletario dall’incoercibile vocazione lirica, essa viene ripercorsa attraverso una galleria di prese di posizione, un mosaico fatto di odi ai minatori e appelli alla classe operaia, di slogan pubblicitari («poesia applicata» per i prodotti statali, spesso illustrata con disegni di suo pugno) e celebrazioni del regime: memorabile il requiem a Lenin del 1924. Il tutto, nel sogno di una poesia che alimenti la vita quotidiana, all’insegna di un’estetica futurista che sia davvero innovativa, e in armonia con la società comunista. Ma c’è anche, in Majakovskij, la consapevolezza che promuovere la fisionomia della nuova cultura in veste di poeta di agitazione rischia di prosciugare le sue risorse liriche, in un’autodistruttiva tensione ad «andare oltre se stesso» pur di farsi poeta delle masse.

Incuriosiscono i versanti meno noti del profilo di Majakovskij, che la biografia di Jangfeldt ci restituisce anche nelle vesti del viaggiatore: impegnato per buona parte del suo tempo al tavolo da gioco, a Berlino, o entusiasta come un bambino alla vista dei grattacieli newyorchesi, quando è capace di catturare con animo futurista il rapporto tra tecnologia e felicità, cogliendo quell’incongruità tra sviluppo tecnico e arretratezza estetica e ideologica che gli fa pensare come gli architetti americani – privi di una prospettiva ideale – non abbiano compreso il miracolo da loro stessi realizzato. Nella stanzetta d’albergo dove alloggia a Montparnasse non c’è posto contemporaneamente per lui e per le sue scarpe numero 46, e proprio a Parigi lo coglie la frustrazione per l’impossibilità di comunicare in una lingua a lui sconosciuta.

Alle prese con la settima arte, Majakovskij è irresistibilmente attratto dalle potenzialità del kinemo: attore di talento, dall’espressività innata e promettente, è autore di diverse sceneggiature geniali, alcune delle quali andate irrimediabilmente perdute («sciocchezze sentimentali a cottimo», le definì lui stesso, eppure intensamente autobiografiche); collabora inoltre alla realizzazione del film documentario di Abram Room Gli ebrei sulla terra, di cui Lili è aiuto-regista.

C’è poi il Majakovskij declamatore incomparabile, che con la sua vellutata voce di basso, l’arguzia e i riflessi lampo nel rispondere al pubblico, promuove se stesso nel corso di innumerevoli, sfiancanti tournée, prima come poeta futurista, poi come tribuno della rivoluzione (anche da esportazione: a New York, dove arriva passando dal Messico, viene accolto da «salve di applausi tonanti»).

Giungono qui al pettine anche i nodi più irrisolti della sua personalità, dalle pose (con la costruzione di una girandola di auto-mitologie), al gioco (sia con le parole sia, soprattutto e compulsivamente, al tavolo verde e alle carte), alla paternità (sarebbe riuscito a vedere solo una volta la figlioletta avuta da una liaison americana), fino alle sue ossessioni, compresa la fobia delle infezioni e l’attenzione maniacale all’igiene.

È un uomo fragilissimo quello tratteggiato nella paziente, ponderosa ritessitura di vita pubblica e privata, teorica e poetica, storica e aneddotica proposta da Bengt Jangfeldt, che ci restituisce il profilo di un gigante capitato per caso sulla terra, nella Russia degli anni della Rivoluzione, un poeta immenso, «capro espiatorio e redentore», sempre una spanna buona oltre il suo tempo, contemporaneamente deluso e fiducioso, che ha il mondo come palla al piede.