Se si visita la Morgan Library & Museum di New York e si arriva alla North Room si può ammirare un ritratto in terracotta dedicato a Belle da Costa Greene, bibliotecaria e direttrice di quel luogo storico per quarantatré anni. Prima riordinando la collezione privata del banchiere J. P. Morgan e poi, dal 1924, con la trasformazione del fondo in istituzione pubblica, fino al 1948, due anni dopo sarebbe morta. Alla nascita, Belle Marion Greener era figlia di due afroamericani, il padre attivista è stato il primo nero laureato ad Harvard.
«Si deve alla intelligenza e curiosità di Belle Greene se oggi la Morgan Library è ciò che è, con la sua collezione di manoscritti e copie uniche, grazie alla tenacia di una donna amante dei libri e della conoscenza». Ne è sicura Alexandra Lapierre che titola il suo ultimo romanzo con quel nome, tanto scintillante quanto misconosciuto: Belle Greene (edizioni e/o, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pp. 507, euro 19). È un tesoro enorme quello riordinato e ora custodito, cui ha contribuito proprio quella giovane e avveduta bibliofila: insieme a Caterina di Kleve, Gian Galeazzo Visconti e Alessandro Farnese, si trovano anche tre copie della Bibbia di Gutenberg e poi lavori moderni con firme straordinarie da Jane Austen ad Albert Einstein.

«Belle Greene» appartiene a un genere che le corrisponde e con cui si è misurata in altre occasioni, tratteggiando, fra le altre, le biografie di Fanny Stevenson, Artemisia Gentileschi, Moura, Isabella Barreto.

Opero una scelta oculata, per trascorrere qualche anno in compagnia della esistenza di una donna, la sua storia deve corrispondermi con una certa determinazione. Credo di essere stata in ottima compagnia, basterebbe nominare anche solo Isabella Barreto, capitana e ammiraglia di quattro galeoni nel Cinquecento, partita da Lima alla scoperta di nuove vie marittime. Riguardo Belle Greene ciò che mi ha convinta è stata la sua ostinazione a voler fare di una biblioteca privata un luogo aperto al mondo. E c’è riuscita, scegliendo il proprio destino, dichiarando di voler conoscere tutto. Possedeva una curiosità vorace, insieme a un’incrollabile ossessione per i libri antichi, quelli miniati in particolare. Giovane, senza soldi e senza marito, ai primi del Novecento è già famosa negli ambienti culturali ed eruditi americani ma anche in Europa dove si recava per comprare libri rari per conto di Morgan.

La decisione del «passing» arriva con il sostegno di sua madre che, separatasi da un marito insipiente, decide di cambiare i propri dati anagrafici forte della sua carnagione chiara e di valicare così «la linea del colore». Dichiararsi bianche significava molte cose, interne alla comunità nera un tradimento, per sé stessi una tattica di sopravvivenza in cui non mancavano privilegi evidenti. Nel suo libro viene descritta bene l’oscillazione tra questi due aspetti, che diventa speso una forma di fragilità ambivalente.

Nelle prime pagine del libro c’è un dialogo tra Hermione, la nonna di Belle, e Genevieve, la madre della mia protagonista. Se la prima, fedele alla sua provenienza da una grande famiglia di musicisti “meticci” stabilitisi a Washington fin dal Settecento, la ammonisce ricordandole che abbandonando il suo popolo perderà se stessa condannandosi a un esilio eterno, la seconda insiste sulla iniquità di una legge che fino al 1964 (anno del Civil Rights Act, ndr) obbligava la popolazione alla divisione in white or colored – in quest’ultimo caso anche con un unico antenato africano. La pratica del passing era utilizzata dunque per sfuggire alla segregazione razziale e alla conseguente mancanza di diritti. Belle non si vergognava delle proprie origini ma era il modo che aveva scelto per poter fare ciò che desiderava, non ce n’erano poi molti altri.

Negli stessi anni in cui lei sceglieva di passare dall’altra parte, un’altra donna di nome Nella Larsen, scrittrice non bianca ed esponente della «Harlem Renaissance», autrice nel 1929 del romanzo «The Passing», programmatico fin dal titolo, spiegava bene, attraverso due personagge, questo passaggio e i suoi esiti talvolta tragici. Viene in mente che anche lei, raccontando di Belle Greene apre il libro con la morte del giovane Bobbie, suo nipote.

Ogni elemento inserito nel romanzo è veridico, compreso l’episodio che riguarda Bobbie Leveridge, nipote diretto di Belle. Tenente e aviatore tra i più audaci della sua squadriglia, poco prima di spararsi un colpo di pistola in testa il 3 agosto del 1943, si trovava in permesso a Londra ed era andato a consegnare una lettera a Dan Thompson, carissimo amico di sua zia Belle. Dan non la apre subito ma dopo aver saputo della sua morte per trauma balistico decide di farlo scoprendo la verità: una unica missiva da parte della sua fidanzata (che si definisce clean white girl) e che appresa la sua afrodiscendenza lo invita a castrarsi. Tra le cause del suicidio c’è da considerare la lettura da parte della censura inglese e la comunicazione del suo contenuto all’alto comando della US Air Force di stanza a Cambridgeshire. A differenza di Belle Greene, Bobbie non aveva scelto di nascondere le proprie origini, chi non sa come non può essere un traditore, semplicemente le aveva scoperte da adulto con conseguenze drammatiche.
Dan Thompson decide di sigillare questo incartamento e di intestarlo all’attenzione di Belle Greene solo dopo la sua morte, ma lei scompare prima del suo amico quindi non ha mai saputo la vera causa della morte del nipote. Quando ho avuto accesso all’archivio privato di Dan, per avere ulteriori notizie della vita di Greene, quella busta aveva ancora la ceralacca intatta.

Il suo romanzo è attraversato anche dalla storia d’amore tra Belle e Bernard Berenson, uomo di puntigliosa eleganza che alla nascita si chiamava Bernhard Valvrojenski, ebreo polacco e anche lui nella scelta di volersi nascondere. Sembra esserci un legame tra l’amore e l’impostura.

Bernard era arrivato a Boston poverissimo, suo padre era un ambulante. Nel tempo è riuscito ad affermarsi e a diventare un rinomato storico dell’arte. Lui e Belle non hanno mai parlato esplicitamente di ciò a cui avevano rinunciato. Ma si erano riconosciuti, in fondo a loro stessi forse sapevano di quella scelta dolorosa e profonda.

Nell’estate del 1911, in una lettera indirizzata all’amico Neith Hapgood, Berenson, in riferimento a Belle scrive: «Un astro vagabondo, un sole filante di cui ignoro il colore. Era un sole nero? Un sole porpora? O, come sembra a me, un sole d’oro abbagliante? Comunque sia, dopo un incontro del genere è un miracolo che io sia ancora vivo». Lei, lungo quarant’anni, gli scrive 628 lettere ora custodite a «I Tatti» di Firenze, tra i materiali più preziosi che lei ha utilizzato per ricostruirne la parabola.
Quando sono arrivata nella Villa I Tatti e ho appreso non si potessero né fotografare né fotocopiare tutte quelle lettere mi sono un poco infuriata, così con pazienza ho cominciato a ricopiarle, con una matita. E alla trentesima lettera è accaduto qualcosa, cioè sono entrata in risonanza profonda con il sentire di questa donna, credo proprio per l’utilizzo della calligrafia che a differenza della sola lettura è un calarsi in ogni parola, ogni mutamento di tonalità emotiva, un’empatia sulla sua ironia, su un amore grandissimo cui raccontava tutto, c’è una lettera di 28 pagine – per rendere l’idea del dettaglio. È stato come la scrittura diventasse un corpo vivo e mi sentissi responsabile, non per coniugare la mia esperienza con la sua ma anzi per essere ancora più fedele alla sua biografia.

Quelle di lui non esistono più invece.

Sono state bruciate dalla stessa Belle, insieme ai suoi diari, poco prima della sua morte forse per paura che qualcuno ne facesse un uso maldestro. Ha lottato per mantenere e diffondere la memoria umana dei libri e ha distrutto le tracce della propria biografia. Il fondo epistolare mi ha però consentito di scegliere alcuni tra i nomi ricorrenti, visitare gli archivi personali di ciascuno e così saldare pezzo per pezzo la storia di Belle Greene, una donna libera che ha seguito il suo desiderio con coraggio.

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SCHEDA. «Mosche d’oro», nuova collana editoriale

Sabato 16 ottobre, al Salone del Libro di Torino alle 18.15 (Sala Bianca, Area esterna Padiglione 3), segnaliamo l’incontro dal titolo «Mosche d’oro. Biografie di donne, scritte da donne», una nuova collana delle edizioni Giulio Perrone e che riprende, nel nome, un noto titolo di Anna Banti. Giulia Caminito, Viola Lo Moro e Nadia Terranova che dirigono il nuovo progetto editoriale «Mosche d’oro», saranno presenti al Salone in dialogo con la giornalista Simonetta Sciandivasci e insieme a due delle autrici: Lisa Ginzburg che dedica un volume a Jeanne Moreau , Melissa Panarello che ne dedica uno a Lisa Mopurgo. Tra le pime uscite anche Leonora Carrington raccontata da Elvira Seminara. Evento a ingresso senza prenotazione