La si canta sabato scorso a Roma alla manifestazione unitaria contro i fascismi e una settimana prima improvvisata da Landini e dai lavoratori davanti alla sede devastata della Cgil, o ancora intonata da Greta Thunberg in prima fila al corteo ecologista: è Bella ciao, oggi il brano musicale italiano forse più noto, scandito, strimpellato, diffuso al mondo a livello popolare, la vivace melodia partigiana sta de facto soppiantando, nella condivisione sociale e nell’immaginario collettivo, classici quali Va’ pensiero, La montanara, Mamma, Quel mazzolin di fiori, ‘O sole mio o Volare.

Tuttavia, proprio in Italia, Bella ciao viene tenuta a debita distanza dai grandi media ed è solo adesso che, grazie all’Anpi patrocinatore, cinema e televisione dedicano all’inno libertario per eccellenza il fondamentale docufilm Bella ciao in onda lunedì 25 ottobre su Sky History Channel, canale 411 di Sky, coprodotto da Millstream Films and Media e Ala Bianca Group e diretto da Andrea Vogt, esperta nel firmare inchieste scottanti come Genova: il ponte della rinascita, Il triangolo della morte-I mostri di Firenze, Costa Concordia un anno dopo, Emilia: cronaca di un terremoto.

Protagonisti
Il lungometraggio di circa un’ora e mezza si muove su due «assi» – storico e critico – che ovviamente s’intersecano e di proposito si sovrappongono anche grazie alle rapide sequenze che, come accade in questo neogenere (qui più documentaristico che «finzionale») spezzettano le interviste a sei-sette protagonisti a turno (più molte altre «di contorno»), mettendo in pratica ciò che il grande cineasta e teorico Serghej M. Ejzenstejn già prefigurava cent’anni fa con i film muti: il montaggio delle attrazioni, dove, nel caso della Vogt, l’affermazione di un intervistato è, per così dire, convalidata o approfondita da quella del successivo e via dicendo.

Ecco quindi che la storia di Bella ciao diventa una narrazione audiovisiva coerente, per tentare di chiarire gli ancora persistenti dubbi sulle origini del canto (primo asse) e per ricordare il successo di massa (secondo asse) che sta godendo proprio da quasi sessant’anni ininterrotti, da quando insomma dalla Francia Yves Montand incise il 45 giri in italiano, lui emblema del cinema francese e della chanson parigina, in realtà di origini italiane (Ivo Livi all’anagrafe), figlio di un artigiano toscano comunista, al quale i fascisti bruciano la casa, dopo averlo pestato a sangue davanti a moglie e figli. Montand, tra le poche star a rimarcare la propria fede marxista, terrà il brano in repertorio fino agli anni Settanta durante un memorabile recital per gli esuli sudamericani dai golpe cileno e argentino.

Ricercatori
Forze anche grazie a Yves, in Italia, nel 1964, debutta al Festival dei Due Mondi di Spoleto lo spettacolo Bella ciao diretto da Filippo Crivelli, il primo a portare in scena la storia del folklore musicale nazionale, grazie a ricercatori e musicisti del folk revival e ai riscoperti autentici cantori vernacolari; l’incipit riguarda proprio la canzone del titolo, in una duplice versione: comincia l’ex mondina Giovanna Daffini presentandola con un testo che racconta lo sfruttamento del lavoro nelle risaie del vercellese, seguita dalla giovane Sandra Mantovani nella versione partigiana, con un ritmo più veloce e sostenuto, grazie all’arrangiamento del cantautore militante Fausto Amodei, che l’accompagna alla chitarra.

Come ricordato nel docufilm, Bella ciao come teatro fa scandalo, ma, per paradosso, complice il gossip, ottiene una visibilità e una fortuna inaspettate, prima in Italia e poi nel mondo (anche su disco); ciò accade perché viene intonata O Gorizia tu sei maledetta riferita alle brutture del primo conflitto mondiale, e le autorità (soprattutto militari) presenti in sala interrompono l’esibizione, accusandola di vilipendio; in realtà essa segna l’inizio di un esteso dibattito contro la retorica della Grande Guerra, con gli studiosi progressisti finalmente decisi a rendere pubbliche la violenza, l’inettitudine e la stupidità degli alti vertici del regio esercito.

Da allora Bella ciao diventa pure una canzone militante – come ricordano Paolo Pietrangeli e Giovanna Marini, allora esponenti del Nuovo Canzoniere Italiano, ripresi dalla Vogt – quasi urlata spontaneamente durante i cortei del ‘68, ripresa negli anni Settanta dal gruppo cileno Inti Illimani in Europa nei giorni del golpe (e rimasti ‘fuori casa’ per un quindicennio), alternata a El pueblo unido jamás sera vencido, che sarà l’altro slogan poetico per i giovani libertari dell’intero decennio. Addirittura dalla Ddr – la allora Germania dell’Est -, nello stesso periodo, la band Oktober Club esegue Bella ciao in pubblico e la incide su disco, in tedesco, inserendola accanto alle nuove forme di protest song di Pete Seeger, Quilapayun, Canzoniere delle Lame, in tournée per l’Est Europa, dove, secondo testimonianze orali, Bella ciao è già nota, perché sentita ai Festival della Gioventù Democratica nel 1947 a Praga, poi a Budapest e a Berlino.

Exploit cosmopolita
Oggi tuttavia l’exploit cosmopolita (o forse globalizzante) di Bella ciao è dovuto alla serie tv spagnola La casa di carta, che dà il via a tante discutibili versioni (anche techno e dance), da cui prendono le distanze i numerosi musicisti intervenuti nel filmato: la versione rock dei Modena City Ramblers e quella indie di Skin con Cristiano Godano (Marlene Kuntz) sono riuscite modernizzazioni socioculturali che, a detta degli autori, servono per continuare a insistere sui valori inclusivi di un testo, comunque antifascista, ma aperto, senza mai diventare ideologismo o propaganda, giacché proteso a esaltare anche saperi poetici come la metafora del fiore sulla tomba del partigiano, che richiama addirittura la memoria dei lirici troubadour (tramandata sin nell’ottocentesco Fior di tomba studiato da Costantino Nigra) o persino l’Ugo Foscolo de I sepolcri, con l’idea che colui che muore, immolandosi per un nobile ideale, deve in qualche modo essere onorato.

Il fiore porta a molteplici deduzioni sulle vere origini di Bella ciao, di cui tuttavia mancano purtroppo fonti scritte, orali, fonografiche negli anni della Resistenza; anche indietro, la versione contadina della Daffini pare risalga al 1951, per via di un testo autografo, e non agli anni del fascismo, come sostengono svariati ascoltatori. La Vogt, perciò, insiste nel chiedere lumi a storici, partigiani, etnologi e musicisti, ricevendo eterogenee risposte, che partono dall’anziano combattente sicuro di aver sentito il brano cantato durante gli spostamenti della Brigata Maiella tra Abruzzo e Marche, e giungono all’esperto Cesare Bermani, il quale avalla l’ipotesi centritalica, negando la genesi al Nord, dove trionfa l’adattamento della russa Katiuscia in Fischia il vento da parte delle Brigate Garibaldi (vicine a Pci e Psi).

L’anonimato della canzone magari ribadisce al meglio la funzione collettiva di una musica non priva di finezze, come osserva la Marini, in quella che resta l’analisi forse migliore dell’intero commovente docufilm, quando spiega la natura modale dei suoni, con due modi uno attaccato all’altro, reminiscenza di una forte oralità, a sua volta derivante dall’antica Grecia, le cui scale vanno dall’alto al basso; inoltre l’intervallo di quarta dell’inizio è un incitativo che quasi comunica lo scattare in avanti, come avviene in tutti gli inni politici dalla Marsigliese all’Internazionale. Per il resto, le versioni, oltre quelle citate, dei turchi Yorum Group, della statunitense Deborah Koopermam e di Dario Fo al funerale della moglie Franca Rame, oggi sono, qui, tra le immagini scelte dalla Vogt a dimostrare, o meglio mostrare a tutti la grandezza, l’universalismo, l’importanza, persino la sacralità laica di Bella ciao.