l primo dato sono i numeri tutti positivi. Li comunica con soddisfazione il presidente della Biennale Paolo Baratta, nell’abituale incontro di «metà festival» con la stampa italiana. Le cifre parlano di un aumento nella vendita dei biglietti (più 13,66%), degli abbonamenti (più 17,03%), degli accreditati (più 10,07%), e un successo inatteso del nuovo spazio VR, la realtà virtuale, sulla meravigliosa isola del Lazzaretto recuperata. I più giovani sono tornati a frequentare la Mostra, il che dimostra come abbia funzionato l’impegno per creare facilitazioni con cui sormontare i costi spesso molto alti del Lido. «Non è vero che il pubblico giovane non frequenta la sala, sono abituati a consumare il cinema in altro modo ma essere presenti a un festival è un’esperienza diversa» dice Barbera.

Tutto bene, dunque, in questa Mostra numero 74 a cominciare dal programma che, a parte qualche titolo (e la nuova sigla che ha sostituito quella di Simone Massi senza grandi entusiasmi), sul concorso sta ricevendo critiche – anche sulla stampa internazionale – molto positive. Al di là dei film, però, ciò che conta, e su cui cercano di mettere l’accento sia Baratta che Barbera, è la progettualità, il lavoro svolto negli anni che ha permesso alla Mostra di crescere e di ottenere i risultati di oggi. «Non sono tanti i festival che hanno introdotto cambiamenti importanti cercando di adeguarsi alle mutazioni del sistema cinematografico come abbiamo fatto noi» sottolinea Barbera. Biennale College, ora anche per i registi italiani, il Venice Gap Financing Market, per le coproduzioni, Biennale Bridge per i progetti in progress, fino appunto alla realtà virtuale: «Il prossimo anno andremo avanti anche con le modifiche del Palazzo del cinema, al terzo piano dove c’è la sala stampa senza toccare nulla ricaveremo un nuovo spazio di visione. Mentre rispetto alla VR stiamo pensando a sinergie con gli altri settori come la Biennale Architettura» aggiunge Baratta.

Poi ci sono gli americani, il cinema hollywoodiano e indipendente è tornato sul Lido, impresa questa (e non da poco, complici gli Oscar, da Gravity a La La Land, che da soli però non sarebbero bastati a produrre lo stesso risultato. Barbera ne è sicuro. Spiega: «Abbiamo lavorato moltissimo per ricucire i rapporti col cinema americano, io vado negli Stati uniti due volte l’anno, abbiamo dovuto spiegare loro il nostro progetto di rinnovamento nelle strutture, e siamo riusciti a dargli delle garanzie di facilities, alberghi, servizi, tutto ciò che chiedono senza farli sentire soli come accadeva prima. Pian piano hanno capito che Venezia può essere una piattaforma di lancio migliore di Toronto, da cui possono trarre molto profitto. E se prima dovevamo implorarli per venire qui adesso sono anche loro a proporsi. Quanto a dire che noi siamo l’anticamera degli Oscar, mi fa piacere che i nostri film abbiano successo, ma dietro a questo ci sono appunto sei anni di lavoro».