«Beirut, così come la conoscevamo, non c’è più». Inizia così la telefonata con Caroline Hatem, regista teatrale e co-fondatrice dell’associazione culturale Yazan. Le due esplosioni al porto di martedì non hanno risparmiato nulla.

L’EPICENTRO delle deflagrazioni è raso al suolo, si è creato un cratere di circa 200 metri, invaso dalle acque del Mediterraneo, in cui sono stati inghiottiti edifici e strade. L’onda d’urto, avvertita a chilometri di distanza, ha investito la città risalendo e allargandosi dal porto verso il centro e su verso i quartieri più in alto, spazzando via in pochi secondi edifici, automobili, strade, e provocando oltre cento morti e circa 4.000 feriti.

«Per dieci secondi si è pensato a un terremoto, poi è arrivata la seconda esplosione, fortissima. Io ero fuori Beirut e l’ho avvertita distintamente – ci racconta Caroline Hatem – Oggi stiamo scavando tra le macerie, cercando vittime e sopravvissuti, ma penso anche a tutti i luoghi della nostra vita, i posti in cui ci incontravamo, le case del XIX secolo, antichi edifici già fragili ma bellissimi, non ci sono più in molti casi. Sento un vuoto dentro di me, mi sento sradicata».

La zona del porto è un cumulo di macerie, come il tratto dell’autostrada Charles Helou che collega Beirut al nord. Poi, oltre l’autostrada, ci sono i quartieri della movida, Mar Mikhael e Gemmayze, anch’essi devastati, risalendo fino ai quartieri abbarbicati sulle colline della zona ovest della città. L’area del Museo Nazionale, alle cui spalle si trova un altro ritrovo della movida di Beirut, il quartiere di Badaro, ha subito molti danni, come via Hamra, nella parte orientale, dove le vetrine sono in frantumi.

GLI EDIFICI DI VETRO che svettano in Downtown, il centro commerciale della città, sono in frantumi, racconta Nadim Deaibes, scenografo teatrale: «Il teatro Zoukak, a Mar Mikhael, del cui collettivo faccio parte, non c’è più, ci sono solo i muri. Giro per la città e vedo case sventrate. Alcuni edifici antichi sono crollati o probabilmente saranno abbattuti, le strade tappezzate di vetri, c’è sangue ovunque. Anche le zone più lontane dall’epicentro sono state duramente colpite».

Le esplosioni hanno investito i quartieri più poveri e quelli più ricchi, i centri commerciali, quelli istituzionali, gli ospedali (diversi sono inagibili), le strade di ristoranti, bar, caffè, gallerie d’arte, cinema, teatri.

«ALCUNE ZONE VICINE all’esplosione sono aree più povere della città, con edifici fatiscenti e sono state colpite duramente. Anche la ex zona industriale di Karantina, vicina al porto e al quartiere armeno, Bourj Hammoud, ha subito un impatto devastante. Qui da alcuni anni gli ex capannoni industriali si erano trasformati in centri culturali, locali, teatri. Una sorta di riscatto dopo il periodo buio della guerra civile, quando le milizie falangiste li avevano occupati e usati come caserme, luoghi di prigionia e tortura. Adesso non riesco a immaginare come possano tornare a riaprire tutti questi luoghi che negli ultimi anni si erano rivitalizzati e ora sono a pezzi. Ormai da mesi siamo diventati poveri, i libanesi non possono permettersi di aggiustare neanche una finestra».

LE ESPLOSIONI si sono abbattute su un paese già messo in ginocchio dalla crisi economica e finanziaria, ulteriormente aggravata dall’impatto dell’epidemia di Covid-19. Quello libanese è un popolo resiliente, che ha superato conflitti e crisi, ma questo disastro è il «colpo di grazia», dice Nadim Deaibes: «Forse questo è troppo, forse va al di là della nostra capacità di affrontare crisi e disgrazie. Io sono pieno di rabbia e so che lo sono tutti qui, e questo mi fa pensare e temere che nel nostro futuro ci sarà ancora più violenza. Se non cambia tutto, radicalmente, ci aspetta ancora più violenza».