Si sono levate voci autorevoli contro lo stravolgimento della Costituzione. Da Asti, Sergio Mattarella ci ricorda le parole di Giovanni Goria sulla modernità di una Costituzione che è il «nostro passato, ma anche il nostro futuro».

Un richiamo che qualche corifeo di maggioranza ha subito stigmatizzato come ingresso dell’arbitro in partita. Ovviamente, non è così. Ma a destra piace un capo dello stato che sia supino follower del primo ministro.

E non è solo Mattarella. Il cardinale Zuppi, parlando dopo la chiusura dell’assemblea generale dei vescovi, ha chiesto sul premierato cautela e un risultato non contingente, «cioè che non sia di parte». L’esatto contrario è accaduto in senato. Il presidente La Russa con tempi contingentati ha annunciato il 18 giugno come data possibile per il voto finale dell’aula, applicando agli emendamenti il famigerato «canguro» per stroncare l’ostruzionismo delle opposizioni.

Il 22 maggio il consiglio episcopale permanente ha approvato una nota sull’autonomia differenziata in cui si segnala la preoccupazione che siano accentuati gli squilibri già esistenti «tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie … il progetto di legge (Calderoli) rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica». Parole chiarissime. Ora la Chiesa dovrà far giungere il messaggio alla base, cioè nelle parrocchie, in modo da contribuire alla consapevolezza del popolo dei fedeli. Perché è di una resistenza popolare che abbiamo bisogno. È necessario scendere in campo, qui e ora. Lo impongono la tempistica decisa dalla destra e gli strumenti disponibili per opporsi.

Una maggioranza divisa su tutto – dal redditometro alle alleanze in Ue – si compatta nel mercatino delle riforme tra premierato a Meloni, autonomia differenziata alla Lega, giustizia addomesticata a Forza Italia. Dopo il voto europeo, salvo sconvolgimenti imprevedibili, la maggioranza arriverà in tempi brevi al voto finale sul Calderoli, probabilmente cercando di rimanere allineata con il voto del 18 giugno in senato.

Il punto è che subito dopo percorsi e tempi delle riforme inevitabilmente si divaricano. La via per il premierato e la giustizia – leggi costituzionali – rimane lunga, e può concludersi con un referendum confermativo. Il disegno di legge Calderoli è invece definitivamente approvato, e un referendum (abrogativo) sarebbe probabilmente inammissibile. Anche se così non fosse, probabilmente non si voterebbe prima del 2026.

Il negoziato per intese di autonomia differenziata con singole regioni può invece partire subito – come Zaia chiede, già dal «giorno dopo» l’approvazione – almeno per le materie e/o funzioni non condizionate alla previa determinazione di livelli essenziali delle prestazioni. Si tratta di circa 200 su un totale di 500 funzioni statali nelle materie in principio devolvibili. La trattativa sarà nelle mani dei presidenti di regione e di Calderoli, che ha diffidato Meloni a non usare il potere di cui dispone di porre limiti al negoziato.

Sarà questa la fase di maggiore rischio per la Repubblica una e indivisibile. Se anche solo una o due regioni riuscissero a fare breccia – ad esempio mettendo le mani sulla scuola, obiettivo molto concupito dal ceto politico regionale – per un effetto domino inevitabile altri «governatori» farebbero richieste analoghe e a quel punto non resistibili. Escluso il referendum abrogativo, l’unico strumento di contrasto immediatamente attivabile contro il disegno di legge Calderoli una volta approvato è – come ho già proposto – il ricorso in via principale di una o più regioni in Corte costituzionale.

Per questo interessa che il coordinamento nazionale della Via Maestra, a prima firma Landini, abbia scritto ai presidenti di regione sollecitando il ricorso contro la (futura) legge Calderoli. Come interessa che in una chat (È sempre 25 aprile) Bonaccini abbia detto «sono convinto che l’Emilia Romagna sarà tra le regioni a presentare quesito di legittimità alla Corte costituzionale».

Avevamo dubitato dei suoi buoni propositi, per il silenzio sulle 6mila firme che hanno chiesto con una legge di iniziativa popolare il ritiro dell’adesione ai preaccordi del 2018. Forse avevamo torto. Comunque, è utile che venerdì 24 ci sia stato davanti al consiglio regionale un sit-in, al fine appunto di sollecitare il ricorso. Aspettiamo ora Bonaccini alla prova. Che dia una mano.