Il via libera da parte della commissione Affari costituzionali della Camera all’Autonomia differenziata offre l’occasione per una riflessione sullo stato delle nostre istituzioni. La cronaca fornisce infatti molti spunti.

Il sì al provvedimento, tecnicamente l’approvazione del mandato al relatore a riferire in aula, è arrivato ieri sera alle 18. La commissione ha esaminato e votato gli emendamenti a una legge che trasforma la forma del nostro Stato per tre soli giorni, mentre in prima lettura in Senato, la commissione Affari costituzionali ha lavorato sul merito delle proposte di modifica per tre mesi. Si va dunque consolidando persino sulle riforme istituzionali quel monocameralismo alternato che è diventato prassi consolidata per i decreti legge del governo Meloni. Questa prassi è del tutto incoerente con la precedente riforma, quella del taglio dei parlamentari, votata dal parlamento e confermata dal un referendum. Il taglio del numero dei parlamentari ha infatti confermato il bicameralismo perfetto, con l’unico effetto di indebolire la rappresentanza, e portare al superamento per prassi dello stesso bicameralismo perfetto.

Perché questa furia di votare – anzi non votare – gli emendamenti in commissione in soli tre giorni? La necessità dipendeva dal fatto che i patti tra Lega e Fdi imponevano di portare il ddl Calderoli in aula lunedì 29 aprile, così da sbloccare il giorno dopo, martedì 30, la calendarizzazione del premierato per l’aula del Senato. Ieri il ministro per i rapporti con il parlamento Luca Ciriani ha confermato che il via libera all’Autonomia consentiva il passo avanti anche per il premierato. Quindi un patto che non ci si perita più nemmeno di celare. È interessante quanto affermato in commissione dal presidente, il forzista Nazario Pagano. Alla ennesima richiesta della capogruppo del Pd, Chiara Braga, di prorogare l’esame in commissione del ddl così da farlo arrivare in aula qualche giorno dopo, Pagano ha replicato dicendo che «personalmente» era «disponibile, anzi favorevole», ma che assieme al presidente Lorenzo Fontana ha incontrato un muro da parte della Lega. Quindi in qualche modo Forza Italia è disposta a sacrificare le proprie istanze e persino gli assetti istituzionali pur di mantenere in piedi l’equilibrio della coalizione.

Tutta le opposizioni ieri pomeriggio non hanno partecipato al voto finale in commissione per protestare contro l’impossibilità di un approfondimento del merito della legge Calderoli. Ma anche per stigmatizzare quanto accaduto venerdì e mercoledì, con la ripetizione di una votazione il cui esito non era stato gradito dalla maggioranza. Simona Bonafè (Pd), preoccupata, ha parlato di «dittatura della maggioranza» che crea un precedente per i futuri lavori parlamentari. Anche il combattivo Pasqualino Penza, di M5S, ha paventato che analoghe prassi possano ora essere messe in campo con il premierato. D’altra parte c’è una “coerenza” con quanto avvenuto pochi giorni fa con il Documento di economia e finanza: il governo – come noto – vi ha inserito solo i tendenziali e non il programmatico, rifiutandosi quindi di dire al parlamento quali sono le proprie politiche economiche. È stato scritto che ciò è dipeso dalla volontà di celare una manovra correttiva prima delle europee, il che è vero. Ma da un punto di vista istituzionale ha significato il rifiuto del governo di far controllare le proprie politiche economiche dal parlamento, che infatti le approva con una risoluzione in aula. Se il buongiorno si vede dal mattino, ci si prepari al peggio.