L’autonomia differenziata può essere uno dei punti in comune politicamente più rilevanti di un futuro governo composto in maggioranza da Cinque Stelle e Partito Democratico. La proposta è contenuta nel sesto punto del decalogo letto da Luigi Di Maio al Quirinale. Dal punto di vista del grillino serve a rivendicare sul nuovo tavolo con i Dem uno dei punti qualificanti del precedente «contratto» di complicità con la Lega, senza lasciare la partita estremamente divisiva solo nelle mani di Salvini all’opposizione e dei suoi governatori di Lombardia, Veneto (Friuli, con l’ex forzista Toti a supporto in Liguria).

Per Di Maio il processo va completato «istituendo livelli essenziali di prestazioni per tutte le altre regioni per garantire a tutti i cittadini gli stessi livelli di qualità dei servizi». Così intesa sembra un’integrazione del progetto leghista perché accetta la secessione dei ricchi coniungadola con la perequazione infrastrutturale stabilita dalla dimenticata legge 42.

Mentre si svolgevano le risse nel corpaccione nazionalpopulista, i Cinque Stelle avevano tuttavia trovato il coraggio di opporsi all’aggressività dei leghisti, e dei loro irrequieti governatori del Lombardo-Veneto, rifiutando alcune delle condizioni capestro contenute nel progetto: i meccanismi finanziari e la regionalizzazione di istruzione e infrastrutture, ad esempio. Nemmeno queste posizioni bastano per svelenire la pozione indigesta dell’autonomia differenziata, ma sono state sufficienti per fare saltare il banco della connivenza tra i Cinque Stelle e i leghisti che assediavano Conte a Palazzo Chigi.

L’amo di Di Maio è stato raccolto ieri da Stefano Bonaccini che ancora per un anno governerà l’Emilia Romagna per il Pd. Ieri al Meeting di Rimini, in un dibattito con gli altri sostenitori dell’autonomia differenziata – il governatore lombardo Attilio Fontana, il ligure Toti, il friulano Fedriga, il siciliano Musumeci e il presidente della provincia autonoma di Trento Fugatti – Bonaccini ha proposto di tornare indietro di un anno e mezzo quando siglò un’intesa con il governo guidato da Paolo Gentiloni, oggi presidente del partito che potrebbe comporre il nuovo governo con Di Maio e i Cinque Stelle. A sentire l’ex governatore lombardo leghista Roberto Maroni che firmò il «pre-accordo» insieme a Bonaccini e il veneto Zaia, si trattò «di un’intesa molto più favorevole alle regioni del Nord». E fu concessa da un governo targato Pd.

Bonaccini si è augurato la nascita del nuovo governo. E ai dirgenti nazionali del Pd ha chiesto di «smettere di litigare». «Non ne possiamo più dei litigi nel Pd. Chiudiamoci in una stanza e parliamo, ma evitiamo di farci compatire». Il nuovo eventuale esecutivo dovrà ripartire dalla «sconfitta politica» di Salvini che aveva sostenuto di volere adottare in «15 giorni» l’autonomia una volta andato al governo. Invece ha fatto cadere il governo senza averla fatta approvare. L’offerta di Di Maio lo soddisfa perché «non vuole fermare l’autonomia» e vuole «indicare contestualmente i livelli essenziali di prestazione». A riprova che le elezioni in Emilia Romagna si giocheranno sul terreno della secessione dei ricchi è intervenuta anche la candidata leghista Lucia Borgonzoni: «Ma lo sa Bonaccini che sono stati proprio i Cinque Stelle ad avere bloccato l’autonomia che la Lega chiedeva da mesi?». Lo sa, come il partito locale che ha scelto di giocare sul terreno della Lega, presentando un’ipotesi di autonomia meno aggressiva rispetto a quella di Veneto o Lombardia.

Il Pd nazionale, fino ad oggi molto silenzioso, potrebbe raccogliere l’amo di Di Maio. I presupposti ci sarebbero tutti: il partito sarebbe l’erede dell’affrettata, a dir poco, approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta pochi mesi prima delle elezioni politiche del 2001. Anche in quel caso il «centrosinistra» pensava che, in questo modo, avrebbe ostacolato la cavalcata trionfale di Berlusconi, Lega e Alleanza nazionale verso il governo. Risultato: un disastro. Berlusconi restò al governo per tutta la legislatura successiva. E oggi, gli eredi di quell’alleanza si sono messi in fila e attendono di passare all’incasso, rivendicando un doppio referendum in Lombardia e in Veneto di cui ancora si contesta la legittimità. Gli effetti politici di quell’improvvisata decisione sono talmente durevoli da ripresentarsi oggi attraverso i Cinque Stelle allo sbando.

La prospettiva preoccupa i padri nobili del «governo Ursula». Romano Prodi ha avvertito: le autonomie «non possono essere lasciate all’iniziativa di alcune regioni». Bisogna capire se passeranno dalle mani di chi ha aperto un’autostrada alle rivendicazioni secessioniste leghiste.