«Da qui a Macao sono solo quaranta minuti in elicottero», dice con una certa nonchalance il direttore del Peninsula hotel di Hong Kong, mentre osserviamo lo skyline notturno sulla base d’atterraggio alla sommità dell’albergo. In effetti, diversi miliardari sono atterrati proprio su questa base da Macao, ma anche da Shanghai, Tokyo per visitare, qualche settimana fa, la fiera Art Basel Hong Kong e immergersi nella settimana dell’arte locale, tra le cui iniziative figura anche «Art in Resonance», un programma di commissioni del Peninsula hotel, il cui tour è terminato su quel tetto.

Una tale affluenza di collezionisti nella prima regione amministrativa speciale della Cina è inevitabile: con una forte comunità di collezionisti e mecenati a livello locale, Hong Kong è da sempre l’epicentro del mercato dell’arte asiatica, e a tutt’oggi la città continua a ospitare un gran numero di gallerie, musei e case d’aste. La sua posizione geografica la avvantaggia, così come il suo essere strategica per il libero flusso di capitali, l’essere esente da tasse, e rimanere unica in quanto ad efficienza nelle logistiche e la presenza di esperti del ogni settore.

Eppure il ruolo di primo piano di Hong Kong è stato messo in discussione all’indomani della pandemia. Non si è trattato solo degli stringenti divieti pandemici implementati dalla Cina in tutto il suo territorio, ma ad un altro tipo di restrizioni; quelle sempre crescenti che riguardano la libertà di stampa e espressione.
Le nuove politiche cinesi che interessano Hong Kong hanno fatto sì che negli ultimi anni circa mezzo milione tra locali ed espatriati hanno lasciato Hong Kong per emigrare in altri paesi, soprattutto Regno Unito, Dubai e Singapore, in una sorta di esodo di massa.

Costoro sono stati sostituiti da cinesi continentali che si sono riversati a Hong Kong nell’ambito di un nuovo programma politico volto ad attrarre talento e ricchezza nella regione amministrativa speciale: «Questo sta creando una nuova dinamica in città – sottolinea il collezionista di Hong Kong, Alan Lo – Negli ultimi cinquant’anni Hong Kong è stata in continua evoluzione. Solo il tempo ci dirà come si svilupperanno le cose in futuro».

Un’altra sfida per il primato artistico di Hong Kong in Asia è rappresentata dal pullulare, all’indomani della pandemia, di un grande numero di nuove fiere d’arte nel continente. Se a Singapore la nuova kermesse Art SG ha sostituito Art Stage, alla storica Kiaf dal 2013 di Seul si è associata Frieze Seoul. Anche Taipei vanta ben due fiere, Taipei Dangdai e Art Taipei, mentre il Giappone ha la sua nuova Tokyo Gendai.
Ad oggi le fiere non servono solo per una mera compravendita di quadri e sculture. Sono invece determinanti nello sviluppo del panorama culturale delle città, e fungono da trait d’union tra i fruitori, gli artisti e il mercato internazionale. In questo senso, la frammentazione del mercato dell’arte asiatico dipende spesso non solo dalla quantità e qualità delle vendite, ma in maniera più organica, dalla salute e l’interesse di un ecosistema legato alle fiere.

Seul, ad esempio, vanta una grande concentrazione di artisti che vivono e lavorano in loco e, sempre di più, sta esercitando un’attrazione magnetica per i collezionisti curiosi di visitare gli studi d’artista. La scena delle gallerie coreane, inoltre, è tra le più sviluppate in Asia.
«Frieze Seoul è incredibilmente ben frequentata grazie al diffuso interesse del pubblico per l’arte contemporanea – afferma la dealer Rachel Maupin della galleria Lehmann Maupin -. I collezionisti in Corea del Sud e Taiwan possono contare sul loro antico lignaggio in quel settore».

Storicamente, Hong Kong è sempre stata contrapposta a Singapore per la posizione di hub del mercato, soprattutto rispetto all’arte del sud-est asiatico, eppure le due sembrerebbero avere diverse proposte. «Mentre Hong Kong è un centro per l’arte a livello internazionale, Singapore si sta costruendo bene come centro per l’arte del sud-est asiatico», afferma ancora Alan Lo.

Secondo la sua opinione, l’aspetto più interessante di Singapore è rappresentato dalla diversità culturale che abbraccia una presenza malese, indiana, cinese e occidentale, oltre ad avere un gran numero di gallerie che propongono artisti locali. Bisogna considerare che, se per le gallerie si tratta di selezionare a quali fiere partecipare, in base a valutazioni puramente economiche, il collezionista può invece permettersi di visitarne varie, tenendo presente solo la piacevolezza e l’offerta di una scena artistica. «Al giorno d’oggi, con i social media e i pdf via email, si può acquistare arte tutto l’anno – continua Lo -. Andare a una fiera è come partecipare a un aperitivo di networking: è un’occasione per salutare tutti».

«È vero che il mercato nel sud-est asiatico si è frammentato negli ultimi anni – osserva il gallerista Richard Koh -. Eppure ritengo che Art Basel Hong Kong sia senza rivali nel suo attrarre collezionisti e curatori da tutto il mondo». Secondo Koh, una parte sostanziale delle loro vendite avviene proprio nella città, che rimane quindi il mercato privilegiato dell’Asia.

Mentre le principali case d’asta si spostano in spazi più grandi, anticipando la crescita artistica ed economica di Hong Kong e nuovi musei, tra cui l’eccellente M+, aprono finalmente i battenti, l’ultima edizione di quest’anno di Art Basel Hong Kong ha, ancora una volta, battuto i record asiatici in termini di vendite. «La sua vivacità è palpabile – aggiunge Jasdeep Sadhu, direttore della galleria singaporiana Gajah Gallery -. Nel corso del tempo, si è assistito a un’impennata rispetto alla visibilità globale di Hong Kong. I curatori provenienti da Europa e Stati Uniti utilizzano tale fiera come trampolino di lancio dei propri artisti».

Il panorama culturale di Hong Kong rimane quindi ricco e variegato e la concentrazione di collezionisti locali tra le più alte. In questo senso, sembrerebbe che l’Asia nel suo insieme sia sufficientemente vasta e diversificata da supportare molteplici capitali dell’arte. E se Hong Kong rimane leader nel mercato, la ricchezza degli ecosistemi dell’arte contemporanea di Singapore, Seul, Taipei e Tokyo rende ognuna di queste capitali dell’arte un’esperienza a sé, di cui godere. Creando non più concorrenza, ma una fruttuosa interdipendenza, che non potrà che complessivamente beneficiare il mondo dell’arte asiatico.

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Esmeralda è la nuova installazione cinetica site specific dell’artista di Hong Kong Kingsley Ng. Progettata per l’iconica facciata dello storico Hotel Peninsula di Hong Kong, l’opera prende il titolo dalle Città invisibili di Italo Calvino, ed è stata commissionata all’interno del programma di residenze «Art in Resonance».

Calvino descrive Esmeralda come un crocevia di civiltà e una città di commercianti. Pensando alla propria natia Hong Kong, Kingsley decide quindi di evocare quella città letteraria grazie alle onde di tessuto di una monumentale installazione, formata da una serie di nastri verdi sospesi al di sopra della facciata a forma di C dell’hotel. Si tratta di un richiamo alle maree e agli alti e bassi di Hong Kong, una città in continuo movimento.

Artista concettuale, autore di opere site-specific e workshop partecipativi, Kingsley Ng esplora il genius loci, rendendo visibile ciò che nelle metropoli urbane viene spesso ignorato. Dal Centre Pompidou al Macro, fino alla Triennale di Guangzhou, Kingsley ha esposto un po’ dappertutto.

Il suo lavoro trae ispirazione dalle «città invisibili» di Italo Calvino. Come ha cominciato a progettare quest’opera?
L’idea iniziale era quella della leggerezza. Ho pensato di installare sulla facciata del Peninsula hotel cinque ampi nastri verdi, che si muovono in sincrono con la composizione di Arvo Pärt Spiegel im Spiegel, come una sorta di coreografia. L’opera è stata molto complicata da realizzare a livello ingegneristico, per via dei venti che si incanalano nella facciata a C, e ho fatto ricorso a molte maestranze locale per raggiungere l’effetto di leggerezza che avevo in mente. La semplicità è stata per me un punto di arrivo, non di partenza.
L’inspirazione letteraria è, appunto, quella di una delle città descritta da Italo Calvino, Esmeralda. Si può interpretare l’installazione come una serie di onde e movimenti delle maree attraverso il Victoria Harbour che si apre proprio di fronte al Peninsula hotel. Mentre sviluppavo l’opera immaginavo a tutti i cambiamenti storici di cui il Peninsula è stato testimone negli ultimi duecento anni. Hong Kong ha visto molti alti e bassi nel corso del tempo e questo lavoro è un invito a muoversi insieme a quel flusso ininterrotto. Tuttavia nelle mie intenzioni Esmeralda rimane un’opera aperta.

Com’è nata l’idea di avvicinarsi al testo di Calvino? Qual è l’essenza delle «Città invisibili» che nel corso degli anni ha sempre accompagnato il suo lavoro tanto da trasformare quel libro in un suo riferimento ricorrente?
Ho conosciuto Calvino molto tempo fa, all’epoca dell’università. Le Città invisibili è uno di quei libri che mi trovo a leggere e rileggere, scoprendo sempre qualcosa di nuovo. Mi ha accompagnato negli ultimi vent’anni. Da giovane, ho studiato in Canada, Francia e Regno Unito, e nei miei viaggi ha sempre fornito un’ottima metafora per decodificare le diverse realtà che attraversavo. È un ottimo riferimento, un testo che si presta molto bene a una reinterpretazione artistica, essendo così aperto.

Un suo lavoro, «Twenty-Five Minutes Older» del 2017, ha avuto anche un’edizione milanese e anche lì, è tornato Calvino…
In quell’opera mi sono ispirato a una citazione dello scrittore in cui diceva che più ci si perde in città lontane, più si riesce a comprendere l’animo delle altre città che abbiamo precedentemente attraversato.
Twenty-Five Minutes Older è, infatti, un progetto che ha avuto differenti edizioni in varie metropoli, tra cui Hong Kong e Milano, dove lo presentai nell’ambito della settimana dedicata al design. Il mio intervento consisteva nel trasformare un tram storico milanese in un cinema in movimento. All’interno del vagone, sulle finestre ho proiettato immagini e frammenti audio del classico racconto Tête-bêche dell’autore di Hong Kong Liu Yichang. Si tratta di due diverse storie che compongono una narrazione parallela e unitaria.

Dalle sue opere traspare una visione del mondo concettuale e intrisa di simbologia. Da dove pensa provenga questo suo modo di guardare la realtà?
Ho sempre nutrito un interesse nell’arte e nella filosofia, e credo che questo derivi dagli insegnamenti di mio nonno. Nel suo linguaggio punteggiato di piccole metafore, mi ha mostrato come l’arte sia qualcosa da integrare nella propria vita quotidiana. Per esempio, un pranzo poteva facilmente trasformarsi in una lezione sulla sapienza creativa di maneggiare le bacchette. Anche se mio nonno non era un artista nel senso che oggi attribuiamo a questa parola, mi ha trasmesso una visione del mondo come metafora. Una visione che, negli anni, ho abbracciato e fatto mia.