Forse uno dei titoli più attesi nel concorso della Mostra numero 74, mother!, il nuovo film di Darren Aronofsky è finora anche quello più fischiato. Di per sé potrebbe essere un vanto, si sa che ai festival capita spesso ai film più «eccentrici», quelli che non si curano di assecondare le aspettative del pubblico preferendo lanciargli una provocazione. Ma può funzionare, la provocazione, semplicemente come tale? Diciamo che il regista di Il Cigno nero e The Fountain, tra i prediletti di Venezia, non se ne cura anzi sembra divertirsi a spingere il suo gioco (cristologico) all’estremità, quasi beffardo, irridente, di presunzione ostentata. mother!con la minuscola, spariglia sin dal titolo, che non si pensi alla Madre religiosamente intesa, eppure il film nella «lettura» più evidente proprio di questo tratta: dio e la creazione del mondo, il peccato originale, il sacrificio del figlio gesù, il cui corpo viene offerto all’umanità condannata per salvarla, redimerla, sollevarla. Ma ne siamo proprio sicuri?

Facciamo un passo indietro, alle prime sequenze, horror classico (e postmoderno) la casa nel mezzo del nulla, la donna bella (Jennifer Lawrence) che dorme, si sveglia irrequieta e si scopre sola nel letto. Esce, scricchiolii, suggestioni di presenze, il silenzio dell’alba. Ed ecco che appare lui, il compagno (Javier Bardem), scrittore in crisi di ispirazione. Lei è la giovane moglie che lo ama con devozione, quella casa bellissima – da servizio «Domus» – l’ha ricostruita con le sue mani dopo un incendio che l’aveva distrutta. Ha scelto con cura ogni dettaglio, tutto perfettamente come era, tutto semplicemente perfetto. Ma un giorno una presenza estranea irrompe nel loro mondo, è un medico, cerca un hotel, sembra malato. Lo scrittore lo accoglie, ne sembra attratto (è Ed Harris), felice di una presenza che alteri quella relazione di coppia un po’ asfissiante. Ha bisogno di gente, di aprirsi, di ascoltare le storie degli altri per trovare spunti alle sue. Lei è ostile, si sente invasa, avverte un pericolo, quella casa che le corrisponde è lei stessa, è un pezzo di sé, soffre allo stesso modo.

Però non siamo in La casa e nemmeno in Non aprite quella porta, pure se nessuno può entrare nello studio dello scrittore, dove lui crea e conserva una pietra lucente, tutto ciò che rimane della casa bruciata, una sorta di monolite (kubrickiano?). Poco dopo l’ospite invita la moglie (Michelle Pfeiffer), volgare, invadente, i due disobbediscono e toccano la pietra che si rompe. La donna suggerisce seduzione, l’uomo è un fan dello scrittore, un seguace. Hanno due figli che si odiano … E poi? I padroni di casa rimangono soli di nuovo, lui ritrova l’ispirazione, lei aspetta un figlio. Lui ama essere adulato, vuole sacerdoti, santini, processioni, il figlio deve essere offerto a quei proseliti, l’umanità però non si salva e tutto ricomincia…

Possiamo però, visto che è uno scrittore, interpretarlo come la metafora della creazione letteraria o di una relazione di coppia dentro la storia dell’umanità, il maschio narciso nel suo ruolo divino, la donna angelo del focolare conservatrice o forse unica ribelle. La storia della creazione, horror kitsch di Aronofsky lascia aperta ogni possibilità ammesso che lo spettatore sia disponibile a applicarsi: aggiunge, depista, confonde anche se la linea chiara è fin troppo evidente. E però. Questa sua padrona di casa che potrebbe sembrare persino schizofrenica nella sua maniacale ossessione per l’ordine e la grazia di ogni stanza, permette di spostare le figure che la creazione, il suo racconto mitologico divenuto dogma, hanno imposto sull’umanità.

La donna, il suo corpo di madre, può anzi deve essere distrutto, devastato dai desideri dell’uomo, specie se questo coincide con dio. È quanto è sempre toccato al femminile nella rappresentazione religiosa, al punto da strapparle il cuore (e il figlio) per piegarlo ai suoi voleri. La donna che deve ubbidire, che è strumento e tramite è costretta nei secoli a ripetere un ruolo di Madre senza scampo. Non ha voce, asseconda i voleri divini, mentre qui prova a opporsi destinata alla sconfitta.

Sarebbe una possibilità interessante, ma Aronofsky non controlla il suo film, lasciandosi risucchiare in un delirio gotico, costruito intorno al corpo della sua attrice, l’eroina di Hunger Games, ispirazione sua come dello scrittore «divino». In una sorta di accumulo che non conosce purtroppo lo shock emotivo del barocco, produce un caos senza trascendenza,e il compendio della genesi non basta a conquistarla.