Liliana Porter prova a rimettere in piedi una donnina infagottata che è caduta. Ma in piedi non ci sta, sembra svenuta, mentre stava camminando lungo un sentiero desolato. Alle spalle, il caos: da un capo all’altro di una tavola bianca si dispiega una quantità di oggetti rotti, abbandonati, dimenticati e poi due soldatini che si sfidano, vecchie sveglie con le lancette ferme, suppellettili, paralumi, ingranaggi e strumenti musicali e cianfrusaglie e tutto si accumula e si ingrossa a dismisura fino a minacciare tutto. Dall’altro capo, una signora minuta, grembiule e scopa in mano, è intenta a spazzare, quasi ignara di quello che la aspetta là in fondo oppure consapevole e arresa all’inevitabile, chi lo sa. È la Barrendera, così si chiama l’installazione di Liliana Porter, perché la protagonista, quella spazzina minuta e testarda, è assorta in una pulizia che sembra inutile, impossibile e immane. La celebre artista sussurra: «Non è così la mia Argentina?».
Il giorno dopo le elezioni argentine, ha preso un altro sapore la grande e bella antologica che si è aperta al Pac di Milano, Argentina. Quel che la notte racconta al giorno (fino all’11 febbraio 2024), curata da Diego Sileo e Andrés Duprat.
Liliana Porter, di recente celebrata da una retrospettiva importante a Tolosa, gioca il ruolo della decana degli artisti che si sono dati appuntamento qui. Per di più, vivendo ormai da quasi sessant’anni a New York, senza mai abbandonare i suoi legami con l’Argentina, ha quello sguardo strabico che le dà lucidità e forza. Il paese dove è nata nel 1941, finito di nuovo in un labirinto, si è affidato al più improbabile e pericoloso dei possibili presidenti, Javier Milei.
«Io non ho parole. Non so come siamo arrivati a questo punto. Ma quello che vedo in giro per il mondo è che tutto spinge verso queste forme di fascismo, a cui le persone sembrano affidarsi di nuovo».

Quando si entra al Pac, la sua opera è la prima che si incontra. Una specie di ritratto del paese…
Oggi ha davvero un significato diverso. Eppure, a guardarla bene non poteva che essere così. Sono partita dalla figura della spazzina, una donna che deve pulire, umile, piccola. E via via si trova un disastro da affrontare. Ma non è solo caos, ci sono così tante microstorie che compaiono. Non è solo il racconto della barrendera, ma è qualcosa di corale.

Lei ha detto che nel montare le sue installazioni, pensa allo stesso modo di uno che scrive. È così?
Sì, non mi baso su tecnica e colori. Ma temi, immagini, situazioni. Ogni mio lavoro ha un tono tragico, ma ha anche sempre qualcosa che dà speranza, come questo giardiniere che nel caos trova il tempo per annaffiare delle piccole piante. Nel dramma cerco sempre un senso di umorismo, c’è sempre una qualche forma di bellezza, di dialogo, di possibilità. Non succede così nel mezzo di un dramma? Poi devo aggiungere che la letteratura mi ha influenzato tanto. Ho studiato da adolescente in Messico, formandomi nell’incisione. Ma è stato soprattutto l’incontro con grandi scrittori che mi ha segnato, penso a José Emilio Pacheco, Juan José Arreola, Carlos Monsiváis, Octavio Paz. Tra l’altro ho imparato a leggere Borges con loro, che si trovavano per commentarlo ed era emozionante e divertente.

Per questo le sue installazioni somigliano allo svolgersi di un romanzo…
Mi sono accorta, infatti, che uso alcuni temi molto borghesiani, come il tempo. L’installazione funziona come la realtà: è un lungo racconto, ma siccome è impossibile vederlo intero, spinge a fermarsi su alcuni eventi, attirano su alcune situazioni e altre non le vedrai. A un certo punto, c’è un lampadario a gocce che sembra caduto o un treno deragliato. Mi piace l’idea che succedano cose tanto diverse eppure simultanee. Oppure una vecchia sveglia sfasciata, che poi è il tempo e non potremo mai capire fino in fondo questa cosa arbitraria che segna un limite, la fine. E la fine fa paura.

Liliana porter, Untitled, Porter and Camnitzer with drawing, 1973

Lei parla delle sue opere e sembra sempre raccontare il suo paese. È rimasto forte il suo legame con l’Argentina?
Me ne sono andata giovane. Prima in Messico e poi a New York. Dovevo starci una settimana, volevo raggiungere l’Europa, ma alla fine mi sono fermata. Era il 1964. In Argentina sono sempre ritornata, ho mantenuto legami familiari, di amicizia e di lavoro molto intensi. L’ho vista cambiare sì, ma rimanendo sempre un luogo problematico: in fondo è questa la sua coerenza, essere sempre su una montagna russa. È come stare in una famiglia: succede qualcosa di terribile, di inaspettato, ma tutto diventa familiare, sai riconoscerlo, è parte di quello che siamo ognuno di noi. C’è qualcosa di semplice che rimane indelebile, ad esempio la lingua: io continuo a pensare in spagnolo. E tutti i punti di riferimento archetipici provengono dell’infanzia, ti segnano per sempre, a meno che non si sia vissuto un tale trauma che si trasforma in rifiuto totale.

Uno di questi traumi è stata la dittatura, che è tornata ora al centro del discorso pubblico, per cui delitti e vittime sono negati, sminuiti, contestati. Che ricordo ha?
All’epoca, quando tornavo in Argentina, ricordo la paura. In particolare, un anno, alla dogana ricordo i tentativi di intimidazione: ti interrogavano, rovistavano tutto, ti minacciavano. E poi c’era la questione antisemita così forte. Sono ebrea da parte di mio padre, i Porter erano russi dall’Ucraina e da parte di mia madre, Margarita Galetar, erano rumeni ortodossi. Un bel mix. Solo che della famiglia di mia madre sono morti tutti molto presto e quindi ho assorbito tutto da quella ebraica di mio padre, il cibo, il modo di pensare, l’umorismo. Il fatto è che l’antisemitismo non muore mai, è un’erbaccia che ricresce sempre, soprattutto nei momenti di crisi, nelle fasi più drammatiche, e per questo temo molto cosa succederà ora.

 

SCHEDA

Graciela Sacco, «Bocanada», 1993 (particolare)

Si può leggere l’Argentina come una inquieta vertigine di violenza. Non sono solo gli spettri di una feroce dittatura, sepolta di vergogna quarant’anni fa. Ma la società sfigurata dalla corruzione, la prepotenza del potere di turno, il precipitare nella povertà, il grottesco delle vittorie inventate. Tutto questo va in scena al Pac di Milano (fino all’11 febbraio 2024) e non a caso è Quel che la notte racconta del giorno (catalogo Silvana editoriale).
Per farlo, Andrés Duprat e Diego Sileo hanno raccolto le opere 22 artisti e non sapevano ancora che il paese sarebbe diventato il set di un delirio, protagonista un neopresidente anarcocapitalista. Ogni opera si può leggere come un frammento e come una panoramica della realtà. Che sia la grande banconota da 200 pesos stampata su vetro da Cristina Piffer con il sangue essiccato di una mucca o i 30 metri di bocche spalancate di Graciela Sacco. Una massa nera, rocciosa e informe di Eduardo Basualdo sembra l’annuncio (o l’avverarsi) dell’ennesima catastrofe, mentre i legni bruciati di Juan Sorrentino si muovono come una giostra mortifera. Di nero impenetrabile sono i tableaux di Ana Gallardo, da cui traspare l’ordinario orrore vissuto da una donna.

È UNA CORSA verso il degrado, proprio come succederà al cibo nel frigorifero di Adrian Villar Rojas cui fa eco l’inesorabile fine delle mucche nelle campagne desolate di Alessandra Sanguinetti. A ritroso nel tempo ci si imbatte nelle folli performance di Alberto Greco o nel celebre Cristo crocefisso su un jet da guerra di Leon Ferrari; e ancora i tagli di Lucio Fontana e una Liliana Maresca che si abbandona al destino su una rivista erotica con tanto di numero telefonico: era il 1993, dieci anni dopo il ritorno della democrazia.
Bisogna fare qualcosa. Allora ci si può stendere sul pavimento per ammirare la struttura di tele rosa, a mo’ di pensilina salvifica, di Mariela Scafati. O imbarcarsi nell’aeromobile scultorea di Tomás Saraceno alimentata dall’aria e dal sole e da lì osservare la tragedia. fa bo.