Da diversi giorni il presidente del partito islamista Raam, Mansour Abbas, è scomparso dalla scena mediatica, proprio nell’ultima e decisiva parte della campagna elettorale per il rinnovo della Knesset. Una scelta strana per la personalità arabo israeliana – palestinese con cittadinanza israeliana – più seguita dai media ebraici negli ultimi due anni per aver rotto l’alleanza con gli altri leader arabi e deciso di far parte del governo uscente Bennett-Lapid, assieme ai partiti sionisti.

La ragione, ci spiega Abu Yazan, un simpatizzante di Raam, è che Abbas non intende rispondere alla domanda che i giornalisti vorrebbero fargli in pubblico: è pronto a far parte del futuro governo, qualsiasi governo, anche con il leader della destra ed ex premier Benyamin Netanyahu? La risposta la conoscono un po’ tutti. Abbas da quando ha preso il controllo di Raam nel 2019 sostiene che gli arabo israeliani devono governare, con chiunque, anche con Netanyahu, per cambiare la loro condizione di cittadini di Serie B. E non limitarsi a sostenere i diritti dei palestinesi sotto occupazione in Cisgiordania e Gaza. «Ora però non può ribadirlo» aggiunge Abu Yazan, «perché rischierebbe di perdere i voti di quella parte della sua base contrari ad allearsi con Netanyahu».

Il rapporto con lo Stato che si proclama sionista e, secondo una legge fondamentale del 2018, appartiene al popolo ebraico e non a tutti i suoi cittadini, da molti anni è al centro del dibattito tra i leader politici arabo israeliani. Non riguarda solo Raam. Le tensioni interne sembravano superate poco più di due anni fa quando la Lista Unita, con tutti e quattro i partiti arabi, ottenne alle elezioni 15 seggi. Quel risultato fu in gran parte frutto della linea politica inclusiva di Ayman Odeh di Hadash (a maggioranza comunista) che riuscì ad attirare il voto anche di molte migliaia di israeliani ebrei che vi videro l’unica vera alternativa di sinistra a Netanyahu e alla destra. Una alleanza però di cartapesta.

Pochi mesi dopo, Mansour Abbas avrebbe scelto di lasciare la Lista Unita per profonde divergenze con il programma progressista di Hadash, del partito Taal di Ahmed Tibi e del nazionalista Tajammo (Balad) di Sami Abu Shahade. E mentre il leader islamista lasciava intendere di avere punti in comune più con l’agenda sociale della destra religiosa ebraica che con gli arabi progressisti, gli altri esponenti della minoranza araba (21% della popolazione di Israele) si sono scontrati come mai prima, producendo ulteriori e, forse, insanabili fratture. Al centro, ancora una volta, il rapporto con lo Stato e i partiti sionisti.

«Per Hadash e Taal – ci dice la giornalista Nahed Dirbas – esiste una differenza tra destra e centrosinistra nel rapporto con la minoranza araba in Israele e i palestinesi nei Territori, Tajammo invece non la vede e afferma che i seggi arabi alla Knesset non debbano essere resi disponibili di un governo di centrosinistra». Altre fonti sostengono che a pesare sono stati i contrasti personali tra i leader. Comunque sia, al voto del primo novembre Hadash e Taal andranno uniti, Tajammo e Raam da soli. I 15 seggi di poco più di due anni fa sono un lontano ricordo. Gli ultimi sondaggi dicono che Hadash/Taal e Raam riusciranno ad ottenere quattro seggi e a passare di un soffio la soglia elettorale del 3,25%. Tajammo invece è sotto il 3%, quindi fuori dalla Knesset.

A meno di sorprese, la minoranza arabo israeliana sarà rappresentata nella prossimo parlamento israeliano da otto deputati, quattro per Hadash/Taal e quattro per Raam. Un risultato modesto e nello stesso partito di Mansour Abbas, che ha la sua roccaforte tra i beduini del Neghev e in Galilea, si pongono interrogativi sulla linea del leader: come mai Raam non è riuscito a sfondare il tetto di quattro seggi nei sondaggi? Com’è possibile che un partito arabo che dice di aver scritto la storia entrando in un governo sionista non sia riuscito a crescere? «La realtà è palese», ci dice Nidal, un attivista dei diritti della minoranza araba: «Bennett prima e poi Lapid hanno fatto promesse miliardarie pur di avere l’appoggio di Raam ma non le hanno mantenute e per i beduini del Neghev e tutti gli arabi in Israele non è cambiato nulla. Il problema è la natura dello Stato, non stare al governo».

Martedì prossimo tutti i leader politici, a cominciare da Netanyahu e Lapid, guarderanno all’affluenza che si registrerà nei centri abitati arabi. Il 51% degli elettori arabi, una percentuale in sensibile aumento rispetto a poche settimane fa, dicono che andranno ai seggi. Più l’affluenza araba sarà alta e più Tajammo avrà possibilità di passare lo sbarramento elettorale. In quel caso Netanyahu avrà difficoltà serie ad arrivare ai 61 seggi (su 120) necessari per formare una maggioranza di destra.