Friedrich Wolf, medico, comunista, letterato e avventuriero scrisse nel 1928 un librettino che risuonò come grido di battaglia tra gli intellettuali della caotica Repubblica di Weimar. «Die Kunst ist Waffe», ovvero: l’arte è arma. L’invito a usare l’arte per la rivoluzione, non è particolarmente originale, ma Wolf sentiva l’esigenza di serrare i ranghi dello sperimentalismo anarcoide lasciato in eredità dall’espressionismo per mettere la letteratura vigorosamente al servizio della lotta di classe.

Si chiamava Netty Reilin

L’invito di questo «pericoloso rappresentante del bolscevismo ebraico orientale» – così Wolf ha l’onore di essere definito dai nazisti – affascinò letterati di peso, da Becher a Brecht, e anche una fanciulla di buona famiglia che si era da poco addottorata con una tesi su Rembrandt (Jude und Judentum im Werk Rembrandts) e che aveva deciso essere scrittrice e comunista senza sensi di colpa per la sua provenienza borghese, la cultura aristocratica e la sicurezza economica: si chiamava Netty Reilin e divenne Anna Seghers grazie al furto del cognome a un pittore fiammingo, commerciante d’arte come il padre e, come lei, artista eclettico e sfuggente.

In esilio dal 1933 perché ebrea e comunista e poi in patria, nella Rdt dal 1947, aderì senza incertezze alla politica culturale dell’Unione sovietica diventando responsabile di associazioni di scrittori comunisti, conferenziera, scrittrice; ma non rinunciò, malgrado le profonde convinzioni politiche, a una concezione di ‘realismo socialista’ distante (ma senza scandali) dal breviario lukácsiano che aveva messo al bando per convinzione e costrizione lo sperimentalismo, le avanguardie e ogni forma di irrazionalismo letterario, intimamente colluso, secondo il filosofo ungherese, con la barbarie nazista. Anna Seghers voleva invece scrivere sulle dinamiche sociali senza rinunciare a esporre tutta la sua «tavolozza della fantasia».

«Cosa è la verità? – scrive nel 1973 – non solo quello che si può afferrare e gustare; anche la fantasia e i sogni appartengono alla verità. La nostra vita odierna, vera e presente era una volta un mondo sognato. Penso che i sogni possano essere parte della verità. Ben usati possono ampliare la letteratura, la letteratura socialista».

Anche se è soprattutto la storia che incide sulle vite precarie dei suoi eroi, non si cancella mai nell’opera lo spazio del sogno, del ricordo e della allucinazione. Due dimensioni, queste, avvicinate da una edizione italiana originale e un po’ spiazzante di otto racconti scelti per varietà e brevità tra i molti testi di Anna Seghers mai tradotti in Italia e pubblicati tra il 1924 e il 1957: I morti dell’isola di Djal e altre leggende (traduzione di Daria Biagi, in uscita dall’Orma, pp. 224, € 20,00). A dare il titolo alla raccolta è uno scritto giovanile, pubblicato nel 1924 (ma forse precedente), particolarmente eccentrico. Un racconto minore, ricco di morti, maree e revenant che, secondo Sonja Hilzinger, contiene già il nucleo della poetica della scrittrice che cerca, con infinita pietà, un rimedio alla violenza degli uomini e della natura. A questa oscura storia si aggiungono nel volume altre favole, miti, tormenti gotici e distruzioni moderne, seguite da storie più ‘canoniche’ che narrano tra immedesimazione e impegno pedagogico episodi di miseria umana e politica, speranze, errori, solitudini e cadute; protagonisti sono soprattutto gli umili, i diseredati, la povera gente con le loro strategie sociali ed emotive per tenersi a galla in un mondo profondamente ostile.

In questa eccentrica sequenza si mette in pagina con assoluta chiarezza quell’incontro un po’ eretico tipico di Anna Seghers tra fantasia e storia, passato e presente, vivi e morti, omaggio residuale alla religione ebraica della famiglia e alla devozione per la cultura nordica in cui era nata e in cui aveva individuato, tra molti «transiti», una patria ideale.

Inutilmente il lettore nel libro cercherà spiegazioni o introduzioni, come se non fosse necessario mappare una storia politica ormai lontana e a tratti incomprensibile, o trovare le molte tracce che l’autrice disseminava tra i testi: spunti biografici, valori politici, dialoghi stretti e rissosi con altri intellettuali. Neppure l’indicazione dell’anno e del contesto vengono in aiuto (c’è solo un rimando un po’ spericolato tra inglese e tedesco alla edizione delle opere complete dell’ Aufbau Verlag con le sue ampie scansioni temporali).

Andamento ellittico

Quello che rimane, tra racconti cangianti, sperimentali a volte, con un livello di pathos sempre diverso e un realismo screziato e imperfetto, è però stupefacente e invita a una riscoperta di Anna Seghers libera dalle sue e dalle nostre categorie, forse parziale ma in grado di mostrare la costellazione ricca e reticente di una polifonia sempre attuale.

Ottima la traduzione di Daria Biagi che aderisce a una prosa difficile, spesso ellittica, che utilizza le tecniche narrative del romanzo realista europeo e di quello «metropolitano» della fine degli anni Venti con un uso esteso della simultaneità che spezza tempi e voci e impone cambi continui di prospettiva obbligando il lettore a inseguire con affanno e coinvolgimento i personaggi, quelli vivi e quelli morti, e le loro storie.