Ha ricevuto tre lauree honoris causa (Università di Torino, Lucerna, Addis Abeba), ma Angelo Del Boca non è uno storico «accademico» ed è il più illustre studioso della Storia del colonialismo italiano. È riduttivo relegare la sua ricerca storica al solo colonialismo italiano perché Del Boca ha rivelato nei suoi scritti l’anima oscura di un popolo. «Il mito falso di ‘Italiani brava gente», ha scritto Del Boca, «che ha coperto tante infamie… appare in realtà all’esame dei fatti, un artificio fragile, ipocrita. Non ha alcun diritto di cittadinanza, alcun fondamento storico».

Del Boca ha 95 anni, lunghi capelli bianchi, aria austera. Mi guarda con occhi pungenti e interrogativi, seduto su una poltrona della sua casa di Torino, circondato da antichi ex voto dipinti, che anche se laicissimo, ha collezionato per decenni con passione.

Qualche settimana fa l’ho incontrato per consegnarli il premio letterario Giacomo Ferrari 2020 «La Resistenza e le resistenze» per il suo libro Nella notte ci guidano le stelle, un diario partigiano dalla scrittura limpida ed evocativa. «L’ho scritto quando ero ancora partigiano», mi racconta, «perché avevo delle cose importanti da ricordare temevo che se passava troppo tempo le avrei dimenticate». Si commuove un po’ al ricordo di quei giorni. «È stato un periodo molto bello, secondo i miei valori. Devo dire che sono uno scrittore da sempre. Prima di memoriali, di ricordi d’infanzia, moltissimi su mio padre». I racconti del padre Giacomo, che aveva partecipato nella Prima guerra mondiale alla prima battaglia dell’Isonzo, sono stati la sua prima fonte d’ispirazione e hanno instillato in lui una vena antimilitarista e antiautoritaria.

Dopo l’8 settembre Del Boca fugge alla leva fascista rifugiandosi dai parenti in Emilia, «Avevo raccolto dei ragazzi che ambivano a fare i partigiani in una piccola brigata che però raccoglieva il mio spirito, la mia voglia di agire». Da Novara arriva però una notizia angosciante, «I fascisti avevano messo in prigione mio padre e avevano detto: lo libereremo il giorno che si presenterà il figlio». Del Boca è costretto a presentarsi. È inviato in Germania con la Divisione Monterosa per un periodo di addestramento. Al suo ritorno è impiegato in un’azione anti partigiana: «Ho visto un mio superiore, mi ricordo ancora il nome, il tenente Longarotti, uccidere un ragazzo, che era stato ferito ad una gamba, colpendolo in testa ripetutamente con il tacco degli scarponi». Disgustato e furibondo, Del Boca trova il momento opportuno e scappa in montagna. Dopo molti mesi passati nella VII Brigata alpini GL, al freddo, con la fame, con poche armi per combattere i nazifascisti, arriva il 25 aprile. «Era un giorno meraviglioso perché era finito il periodo dell’attesa e andavamo giù a combattere». Numerose brigate GL si raggrupparono per liberare Piacenza. «Non fu tanto semplice, ricorda, perché dovevamo attraversare il fiume, il Trebbia, dove c’era l’acqua alta, che arrivava al petto…» I pensieri vagano a quei momenti indimenticabili, «I fascisti si erano blindati sulle torri. Piacenza ha molte torri, molti campanili. Da lì ci sparavano. Entrammo in città rasentando i muri, per camminare e arrivare al centro della città. Alcuni di noi sono rimasti feriti colpiti dalle mitraglie».

Nel dopoguerra Del Boca lavora per alcune riviste ed entra nella redazione de Il Giorno il quotidiano fondato da Enrico Mattei, diretto da Italo Pietra, entrambi famosi comandanti partigiani. «In quel periodo mi sono accorto che mancava una storia del colonialismo italiano… così decisi di colmare questa lacuna scrivendo io stesso». Documenti alla mano Del Boca fa crollare in pochi anni il mito di «Italiani Brava gente». Nei suoi scritti appare una cruda realtà, fin dalle esecuzioni di massa dal 1861 al 1866 compiute nella cosiddetta «guerra al brigantaggio» sulla quale Del Boca trova le prove, anche in immagini fotografiche scattate prima delle esecuzioni, per ordine dei generali piemontesi, di vittime e carnefici. «Questa è Africa!Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele!» sbraitava alla truppa il generale Enrico Cialdini ordinando orrende stragi e la distruzione di  interi paesi.

Alle stragi nell’Italia del sud seguono quelle compiute dal contingente italiano in Cina durante la guerra ai Boxer ai primi del Novecento. Composto da 83 ufficiali 1882 soldati il contingente si macchia, insieme agli altri eserciti internazionali, di atrocità: «Prese parte», scrive Del Boca, «con gli altri contingenti a stragi, saccheggi, incendi di interi abitati, alla decapitazione pubblica di boxer o presunti tali».

Della dominazione coloniale italiana in Libia, seguita alla guerra del 1911, Del Boca svela le atrocità commesse sia dalla gestione coloniale del governo Giolitti che in quella di Mussolini.  Dopo un attacco turco-arabo del 23 ottobre 1911, il governo Giolitti per rappresaglia fa giustiziare migliaia di arabi, secondo fonti arabe ed europee almeno 4000. Mussolini ordinando impiccagioni, fucilazioni di massa e deportazione, supera di molto i già efferati crimini dell’epoca giolittiana. I generali Badoglio e Graziani, con l’approvazione del quadrunviro Del Bono, fanno deportare 100.000 libici, quasi la metà della popolazione della Cirenaica, nei campi di concentramento nel sud bengasino, nella Sirtica uno dei luoghi più torridi e malsani della Libia. Se le epidemie o la fame, un pezzo di pane duro di 150 grammi al giorno, non sono sufficienti a trucidare i libici, ci pensano le guardie fasciste: una cinquantina di deportati viene fucilata ogni giorno davanti agli altri reclusi. Un film, Il Leone del deserto, che racconta l’epopea del capo guerrigliero libico Omar-al Mukhtàr nella resistenza al colonialismo italiano, agli inizi degli anni ’80 è giudicato «lesivo dell’onore dell’esercito italiano» e censurato, vietato dalle istituzioni della democratica Repubblica italiana.

Era disonorevole un film e non quello che aveva fatto l’esercito italiano in Libia?  «Un atto», scrive Del Boca, che aveva incontrato e scritto un libro su Gheddafi, «che si inserisce in una più vasta e subdola campagna di mistificazione e disinformazione, che tende a conservare della nostra recente storia coloniale una visione romantica, mitica, radiosa. Cioè falsa».

In Etiopia, Del Boca, incontra più volte l’imperatore Hailé Selassié, «Mi raccontò delle cose che non aveva mai raccontato a nessuno…Era un uomo molto fragile, quando gli toccavo le mani avevo sempre paura di romperle, tanto erano fragili». Il Re dei Re apre per la prima volta il suo archivio riservato. Del Boca scriverà il best seller internazionale II Negus. Vita e morte dell’ultimo Re dei Re.

Ma è negli archivi italiani, tra carte segrete e occultate intenzionalmente, che lo storico trova le prove delle orrende stragi, del tentativo di genocidio compiuto dalle armate italiane in Etiopia: i telegrammi inviati fin dall’ottobre1935 da Mussolini a Graziani e Badoglio, dove si autorizza l’utilizzo dei gas, armi proibite dalla Convenzione di Ginevra, contro gli etiopici. In realtà l’utilizzo era premeditato:  i gas,  270 tonnellate per l’impiego ravvicinato, 1000 tonnellate di bombe per l’aeronautica  caricate ad iprite e 60.000 granate per l’artiglieria caricate ad arsine, erano state imbarcati sui convogli navali che le sbarcarono in Eritrea prima che scoppiasse il conflitto.

Per vincere quella guerra sciagurata, Mussolini, «Pensava perfino di ricorrere alla guerra batteriologica», racconta Del Boca, «anche se sapeva perfettamente che nessuno al mondo l’aveva mai praticata».

Le stragi, i massacri continuarono anche dopo la conquista di Addis Abeba, «Il 19 febbraio 1937, in seguito ad un attentato alla vita del viceré d’Etiopia maresciallo Rodolfo Graziani, alcune migliaia d’italiani, civili e militari, davano inizio alla più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto». Gli «Italiani brava gente», massacrarono in tre giorni, da un minimo di 1400 ad un massimo di 30.000 etiopici, a seconda delle fonti.

L’ombra oscura che si annida nell’animo di certi italiani si manifesta non solo in Africa. Nei Balcani, scrive Del Boca, «I crimini commessi dalle truppe d’occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia superiori a quelli consumati in Libia e in Etiopia».

Le relazioni sui crimini di guerra italiani inviate all’United Nations War Crimes Commission sono impressionanti. Dall’11 aprile 1941 all’8 settembre 1943, nella sola provincia di Lubiana, gli italiani fucilarono 1000 ostaggi, ammazzarono proditoriamente 8000 persone, incendiarono 3000 case, deportarono in campi di concentramento in Italia 35000 civili. Nel solo campo di Arbe perirono di fame più di 4500 reclusi. Bastano queste cifre, per immaginare che ci furono altre migliaia di vittime in Dalmazia, in Montenegro, in Kosovo e per comprendere che il nome «del giorno della memoria per le foibe» sarebbe da modificare in «Il giorno della memoria per le vittime degli italiani in Jugoslavia e per le vittime delle foibe».

Andrebbero poi raccontati i crimini di guerra commessi su altri fronti di guerra, la Spagna e la Russia dove c’è la testimonianza raccapricciante di un terribile delitto: «Alcuni soldati sovietici  furono bagnati con la benzina e poi bruciati da un gruppo di carabinieri italiani».

Non c’è da stupirsi dell’efferatezza del crimine. Gli ufficiali italiani nei Balcani insegnavano come trasformare in torcia un partigiano catturato in Slovenia, «Erano sufficienti un palo o un albero al quale legare il prigioniero, un fiasco di benzina e un cerino».

«In genere le stragi», conclude mestamente Del Boca, «sono state compiute da “uomini comuni”, non particolarmente fanatici, non addestrati a liquidazioni di massa. Essi hanno agito per spirito di disciplina, per emulazione, perché persuasi di essere nel giusto eliminando i ‘barbari’ o  i ‘subumani’».

Questa considerazione può spiegare come l’odio per lo straniero, per il diverso, per il profugo riemerga ancora oggi prepotentemente nell’anima oscura di tanti italiani.

A conclusione dell’incontro, racconto a Del Boca quello che ho visto delle missioni militari in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e in altri paesi. Gli si riaccende negli occhi l’intensa luce del combattente per la verità. «Bisogna scrivere un libro»! mi dice.