L’inizio di campagna elettorale sui temi economici si caratterizza per un’accesa discussione sul tema fiscale. Alla, seppur timida, proposta di Letta di un bonus ai giovani attraverso una tassa di successione per i plurimilionari, ha corrisposto il consueto fuoco di fila di contrari. Si rievoca il fantasma della sinistra che vorrebbe aumentare le tasse per tutti e indistintamente. Un fantasma a cui corrisponde la proposta di una Flat tax al 25% e persino al 15% per tutti. Il teorema dominante è quello che abbassare la pressione fiscale in maniera più o meno generalizzata porterebbe all’aumento della prosperità e dei consumi, al rilancio dell’economia.

Dall’altra parte la Flat tax viene spesso contestata giustamente sul piano dell’iniquità, in quanto avvantaggerebbe i più facoltosi, mentre si tratterebbe di abbassare le tasse a quella maggioranza della popolazione che già paga aliquote pari o inferiori al 25%. Da una tale impostazione traspare l’adesione al principio di fondo che meno tasse faccia bene all’economia, anche tra chi contesta la tassa piatta.

Ciò che ci sembra rimanere fuori dal dibattito è il ruolo della sfera pubblica e dei suoi potenziali investimenti, nessuna riflessione seria su come sostenere e trasformare il welfare, tanto più dopo una pandemia. Nessuna prospettiva di redistribuzione della ricchezza, sebbene le disparità non siano mai state così profonde nei Paesi occidentali.

In poche parole ciò che vorremmo domandare è: ma siamo sicuri che per avvantaggiare i segmenti popolari e subalterni della nostra società l’unica via sia quella di ridurre le tasse? Oppure sarebbe necessario avviare innanzitutto una rivoluzione culturale che ponga come centrale una ridistribuzione della ricchezza rifondando la sfera pubblica?

Una sfera pubblica in grado di aiutare le classi subalterne e persino un apparato produttivo oggi quanto mai debole e in balia di forze finanziarie e di mercato lontane dalla società reale. Questa impostazione, sebbene complessa e necessariamente sperimentale, potrebbe portare benefici all’economia nel suo complesso, indirizzandola anche verso la necessaria transizione ecologica. Ridurre le tasse, invece, nella migliore delle ipotesi favorirebbe un’immediata boccata di ossigeno agli ultimi e penultimi, nella versione salviniana alimenterebbe ulteriori processi di tesaurizzazione e accumuli finanziari.

D’altronde questo è accaduto negli ultimi decenni. A partire dagli esperimenti statunitensi negli anni Ottanta fino al più recente taglio fiscale alle imprese approvato da Trump. La pressione fiscale perlopiù è stata progressivamente ridotta ai più ricchi, ma questa ricetta non ha dato vita a un’inversione di tendenza. L’esito di tali politiche nel medio periodo è sempre stata la bassa crescita, a cui ha corrisposto un’impennata delle diseguaglianze sociali.

I tagli allo Stato sociale e l’aumento dei debiti pubblici sono stati sovente l’esito delle sperimentazioni più radicali, spesso contraddittorie anche rispetto agli obiettivi iniziali dichiarati. Si pensi alla crescita del debito pubblico e della spesa militare negli anni di Reagan, o alla crescita della pressione fiscale sui più poveri durante i governi della Thatcher, che alla fine portò a un incremento della pressione fiscale complessiva.

Andrebbe semmai immessa nel dibattito elettorale la propensione al consumo e agli investimenti che lo Stato alimenta con i propri dipendenti, investimenti, servizi e aziende. Un volano non certo facilmente sostituibile dalla sfera privata, tanto più in un Paese come l’Italia che si caratterizza per una produzione a bassi salari e imprese mediamente piccole che registrano sofferenze su scala internazionale.

In un recente libro persino l’eterno democristiano Cirino Pomicino, sebbene giudichi ipocrita la proposta di una patrimoniale, denuncia diseguaglianze e «grandi e sproporzionate ricchezze». Un tempo si temeva di morire democristiani, oggi rischiamo di morire e basta, in campagna elettorale e nella migliore delle ipotesi di noia.