La pace sottoscritta tra Armenia e Azerbaigian sotto gli auspici della Russia in Nagorno Karabakh sta aprendo altri vasi di Pandora. Probabilmente era inevitabile visto che in poche settimane sono stati rimessi in discussione equilibri geopolitici che si erano cristallizzati lungo un trentennio.

Ieri con una mossa che ha spiazzato il Cremlino, la Turchia ha deciso di inviare dei propri contingenti militari in Azerbaigian. Il Cremlino ha glissato parlando di «affari interni tra i due paesi» ma a Mosca la mossa non è piaciuta dopo che già qualche giorno fa Ankara aveva annunciato la futura presenza anche di propri osservatori nell’enclave, smentita con un certo fastidio da Putin in persona.

Quello che preoccupa di più Erdogan e Aliyev è la resistenza che la popolazione di origine armena sta promuovendo nel Karabakh e che potrebbe portare a una rimessa in discussione della pace raggiunta.

I reportage del corrispondente della tv russa Dozd Alexey Korostelev sull’esodo della popolazione di origine armena che abbandona in questi giorni le tre regioni che erano sotto il controllo armeno (Kelbajar, Aghdam e Lachi) e che passeranno in mano all’Azerbaigian, raccontano più che di un mesto abbandono o una fuga disordinata, di una ritirata che lascia solo terra bruciata dietro di sé.

Nei video si vedono le famiglie di queste regioni che sistematicamente, prima di andarsene, bruciano le loro case, uccidono intere mandrie di bestiame, abbattono gli alberi. Alcune di esse andranno a Stepanakert che attende ancora di avere uno statuto, altre si dirigono verso l’Armenia, ma soprattutto prendono la via della Russia dove esistono maggiori possibilità di trovare lavoro.

Il primo dicembre qui arriveranno gli sfollati azeri della guerra degli anni ‘90 e dovranno rimboccarsi le maniche e iniziare da capo: finale terribile di una guerra che potrebbe avere ancora appendici.

Intanto a Erevan, inevitabilmente, si consuma la resa dei conti tra i sostenitori del primo ministro Nikol Pashynian e le opposizioni. Pashinyan, dopo aver evitato la roulette del voto sul suo impeachment in parlamento, vuole resistere a tutti i costi.

Ieri ha dato il benservito al ministro degli esteri Mnatsakanyan accusato di aver tentato, durante la trattativa con l’Azerbaigian, di cedere al nemico parte dei territori già persi nel conflitto e nelle prossime ore intenderebbe licenziare altri ministri frondisti. Tuttavia il rischio principale è che il paese scivoli verso una guerra civile strisciante.

L’opposizione continua a tenere la piazza e chiedere le sue dimissioni ma i sostenitori del governo sostengono che non esiste un vero movimento anti-governativo: si tratterebbe perlopiù di gente portata in piazza in cambio di denaro.

Un po’ paradossale come accusa, visto che la «rivoluzione di velluto» del 2018 che aveva portato al potere Pashinyan era stata definita «arancione» e eterodiretta dai suoi detrattori.

«Il governo armeno non esistono più!», ha detto ai giornalisti, durante la marcia anti-Pashinyan, Artur Vanetsyan, ex capo del Servizio di sicurezza nazionale, leader del partito di opposizione Patria. Vanetsyan non esclude che ci saranno dei tentativi della polizia nei prossimi giorni di arrestate il premier.

«Pashinyan non si affida più alle forze dell’ordine, ma ripone le sue speranze su bande armate con l’aiuto delle quali cerca di frenarci», ha gridato alla folla Vanetsyan.

Ma è l’esercito che infine deciderà il destino politico dell’Armenia: grandi manovre, di Mosca ma anche di Bruxelles, sarebbero in corso intorno a esso.