Status quo. Per i due candidati principali alle presidenziali di Taiwan, ma anche per Cina e Stati uniti, la parola chiave delle elezioni di oggi è questa. L’assunto è chiaro: il voto sarà decisivo per il futuro delle relazioni con Pechino, ma anche per gli equilibri tra le due grandi potenze. Probabile, quasi certo, anche in realtà i taiwanesi non ne sembrano particolarmente convinti. «Chiunque vinca, l’importante è che abbassi i prezzi delle case. Lo dico per mia figlia», dice la 54enne Limei mentre scruta le bancarelle del mercatino di Yongchun, non lontano dal centro di Taipei. Con una curva demografica che tende in modo sempre più inquietante al basso, non aiuta certo il problema abitativo che impedisce a molti giovani anche solo di ipotizzare di crearsi una famiglia.

UN PROBLEMA talmente atavico da aver creato i primi segnali concreti di una crisi dei partiti tradizionali, che però si concentrano prevalentemente su altro, cercando di cogliere in fallo il rivale su identità nazionale e rapporti con la Cina continentale. Non a caso, il Guomindang (Gmd) che fu di Sun Yat-sen e Chiang Kai-shek presenta da mesi il voto come una «scelta tra guerra e pace». Secondo il suo candidato, l’ex poliziotto Hou Yu-ih, una vittoria di Lai Ching-te del Partito progressista democratico (Dpp) alzerebbe il rischio di un conflitto sullo Stretto per le sue posizioni «indipendentiste». Il rivale, attuale vicepresidente, parla di «scelta tra democrazia e autoritarismo». Suggerendo che un successo dell’opposizione dialogante con Pechino potrebbe portare verso la riunificazione.

IN REALTÀ entrambi garantiscono di voler mantenere lo status quo, dunque niente unificazione ma nemmeno dichiarazione di indipendenza formale. C’è una differenza, sottile eppure decisiva. Il Gmd riconosce il «consenso del 1992», controverso accordo col Partito comunista (Pcc) secondo cui esiste una sola Cina, ma con «diverse interpretazioni». Un’ambiguità strategica che ha consentito il dialogo. Il Dpp sostiene invece che Taiwan (entro la cornice del nome ufficiale Repubblica di Cina) e Repubblica popolare cinese siano due entità separate e non interdipendenti. È la “teoria dei due stati” del primo presidente eletto democraticamente, Lee Teng-hui, ripresa dalla leader uscente Tsai Ing-wen. Una posizione che Xi Jinping ritiene «secessionista», ma diversa dall’indipendenza formale come Repubblica di Taiwan perseguita dal Dpp delle origini. Un passaggio che, come messo nero su bianco dalla legge anti secessione di Pechino, significherebbe guerra.

NELLE ULTIME battute della campagna elettorale, Hou e Lai hanno provato a prendere le distanze dai vecchi leader dei loro partiti. «Non sono un tipico membro del Gmd», ha detto Hou a 48 ore dal voto, dopo che l’influente ex presidente Ma Ying-jeou (non invitato al comizio finale del suo “discepolo”) ha dichiarato: «È impossibile vincere una guerra contro la Cina». Hou parla spesso in dialetto taiwanese, cosa impensabile per un membro del Gmd fino alla fine della legge della guerra marziale nel 1987 e alla democratizzazione. L’ex agente ha garantito che rilanciare il rapporto con Pechino non significa procedere a un accordo politico. Lai garantisce invece di aver archiviato le velleità indipendentiste e di aver sposato la linea di Tsai, sua ex rivale interna al Dpp.
Lai dice di essere pronto a dialogare con Xi, che qualche mese fa aveva invitato a bere un bubble tea. Complicato possa accadere. «Se la Cina non parla con Tsai, non parlerà nemmeno con Lai, che è percepito come più radicale e meno prevedibile», dice Yen Chen-shen, politologo della National Chengchi University di Taipei. Una vittoria di Lai potrebbe aumentare la pressione militare di Pechino. Gli Usa potrebbero vedere nella familiare vice Hsiao Bi-khim, ex rappresentante di Taipei a Washington, una garanzia contro colpi di testa non voluti.

IL TERZO incomodo è Ko Wen-je, che in passato ha definito taiwanesi e cinesi come appartenenti a un’unica famiglia. Il candidato del Partito popolare (Tpp), ex medico ed ex sindaco di Taipei, propone una “terza via” pragmatica e anti ideologica. Mentre i rivali parlavano prevalentemente di questioni internazionali, lui si è concentrato soprattutto su quelle interne. Negli ultimi giorni prima delle urne, Dpp e Kmt hanno iniziato a temerlo, soprattutto per il consenso che sembra riscuotere tra i giovani, che hanno affollato il suo ultimo comizio di ieri sera, al contrario di quello del Dpp. Mentre i rivali parlavano prevalentemente di questioni internazionali, lui si è concentrato soprattutto su quelle interne. Anche se sconfitto, Ko potrebbe giocare un ruolo decisivo in parlamento, dove nessuno dovrebbe avere la maggioranza assoluta.

UN’ULTERIORE variante è l’imminente arrivo di una delegazione di ex alti ufficiali inviati dalla Casa bianca. Una mossa che la Cina ha letto come «un’interferenza sul voto». Dall’amministrazione Biden sono comunque arrivati anche segnali di rassicurazione. «Non prendiamo posizione sulla risoluzione definitiva delle divergenze tra le due sponde dello Stretto, purché siano risolte pacificamente», ha detto un funzionario della Casa bianca. Evitare l’apertura di un nuovo fronte è d’altronde imperativo, ancor di più tenendo in considerazione che secondo le stime di Bloomberg una guerra su Taiwan costerebbe circa 10.000 miliardi di dollari, il 10% del pil mondiale: più del Covid e della guerra in Ucraina.