Chissà a quanti, fra i meno giovani che si sono recati al voto ieri in Catalogna, è tornato alla mente: anche le prime elezioni per il parlamento di Barcellona dopo la caduta del franchismo si tennero un giovedì. Era il 20 marzo del 1980, e la Generalitat era l’unica istituzione repubblicana ad essere tornata in vita nella nuova monarchia costituzionale, uno dei simboli principali della Transición che, all’epoca, tutti consideravano esemplare.

Ci si attendeva che a vincere quello storico voto sarebbero state le sinistre, perché l’anno prima in Catalogna i socialisti del Psc e i comunisti del Psuc erano risultati maggioritari alle politiche. Invece, a sorpresa, risultò prima la federazione nazionalista Convergència i Unió (CiU), complice l’alta astensione dei settori popolari formati da immigrati dal resto della Spagna, poco coinvolti in un appuntamento elettorale «troppo catalano».

COSÌ COMINCIÒ il lungo regno di Jordi Pujol, il leader nazionalista che, grazie all’appoggio dei centristi del premier post-franchista Adolfo Suárez e ai repubblicani di Esquerra, divenne il primo presidente della Generalitat eletto nella nuova era democratica.

L’istituzione autonoma regionale fu lo strumento politico principale attraverso cui la borghesia catalana costruì la propria egemonia. Contrastata dalle sinistre che controllavano, invece, i principali municipi dell’area industriale, a partire da Barcellona stessa, in cui maggiore era l’insediamento degli immigrati giunti a partire dalla fine degli anni cinquanta, quando anche la Spagna ebbe il suo «miracolo economico». Con il potere regionale nelle mani, la Ciu di Pujol crebbe moltissimo: quattro anni dopo raddoppiò la propria forza, ottenendo per la prima volta la maggioranza assoluta dei seggi, in virtù del 46% dei consensi. Da lì si consolidò una costante: in Catalogna i socialisti vincevano le politiche e i nazionalisti le regionali.

IL DOMINIO di Ciu sulla Generalitat cominciò a scricchiolare nel 1995, con la perdita della maggioranza assoluta. Pujol restò in sella grazie a una sorta di «grande coalizione» in formato gigante: la sua investitura a presidente fu resa possibile, infatti, dall’astensione di socialisti, popolari ed Esquerra.

Visto con gli occhi di oggi, pura fantascienza. Ma il ’95 era un anno cruciale, quasi una nuova transizione. A Madrid era ormai alle battute finali il governo del socialista Felipe González e il Pp dello scalpitante José María Anzar sentiva avvicinarsi il proprio turno. Gli uni e gli altri se le davano di santa ragione, ma sapevano che qualcosa li accomunava: dovevano tenersi buoni Pujol e i suoi.

E fu proprio il leader nazionalista catalano, infatti, a dare l’anno dopo nelle Cortes di Madrid i propri decisivi voti per l’elezione di Aznar a presidente dell’esecutivo spagnolo. Lo chiamarono il «patto del Majestic», dal nome dell’albergo di Barcellona in cui il numero uno del Pp e Pujol si accordarono secondo uno schema molto semplice, «io appoggio te in Catalogna e tu appoggi me a Madrid». Le due destre, in fondo, avevano molti punti in comune, a partire dalla politica economica neoliberale. La Spagna cresceva – i piedi di argilla emersero anni dopo – e l’indipendentismo era appannaggio di sparute e ininfluenti minoranze.

AI CATALANI, però, il nuovo assetto non piacque. E al voto del ’99 accadde l’impensabile: il Psc, guidato dal carismatico ex sindaco di Barcellona Joan Maragall, risultò primo partito. Grazie agli arcani del sistema elettorale, però, Ciu ottenne più seggi e, con il decisivo appoggio del Pp, Pujol restò in sella altri quattro anni. Gli ultimi.

Nel 2003 socialisti, Esquerra e Iniciativa per Catalunya (referente regionale di Izquierda unida) siglarono un’intesa che portò alla nascita di un governo progressista. Quel tripartito a cui guarda oggi l’area di Podemos come punto di riferimento. Le condizioni per riproporlo sono molto difficili, per non dire impossibili. Anche se i numeri lo consentissero, il Psc non si alleerebbe mai con una Esquerra indipendentista come quella di oggi. E viceversa l’elettorato di Esquerra non gradirebbe certo un accordo con gli «unionisti» socialisti, complici, ai loro occhi, della repressione post-referendum.

SALVO CLAMOROSE SORPRESE e inattese «mosse del cavallo», il ciclo politico catalano attuale è ancora quello dei fronti contrapposti. Separatisti contro «costituzionalisti». Un ciclo cominciato con le elezioni del 2012 in cui il delfino di Pujol, Artur Mas, si impossessò della bandiera dell’autodeterminazione per sopravvivere agli scandali di corruzione che lo stavano travolgendo. Ottenne il 30% e mantenne il governo grazie all’appoggio della nuova Esquerra dell’abile Oriol Junqueras, capace in pochi anni di strappargli l’egemonia nel campo indipendentista.