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Aldo Bianzino, nuova perizia. La famiglia: «Riaprire il caso»

Aldo Bianzino, nuova perizia. La famiglia: «Riaprire il caso»Aldo Bianzino

Richiesta alla procura di Perugia «Ucciso in carcere con percosse»: elementi decisivi analizzando i resti di fegato e cervello

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 18 maggio 2018

Rudra Bianzino, il figlio di Aldo, l’ebanista che morì dieci anni fa in condizioni oscure nel carcere di Capanne a Perugia, è diventato adulto, e dopo aver preso in mano il caso della morte del padre, chiede ora alla procura umbra di riaprire le indagini.

Assistito dagli avvocati Corbelli e Zaganelli – il legale che seguì la vicenda sin dall’inizio – il figlio di Aldo Bianzino e di Roberta Radici, che mori dopo soli due anni forse anche per il dolore patito, ritiene che ci siano «elementi nuovi» maturati negli ultimi mesi tanto da fornire alla procura diversi spunti che potrebbero motivare la giustizia perugina a «disporre la riapertura delle indagini del procedimento penale per l’ipotesi di reato di cui all’art. 575 c.p. (omicidio ndr) compiuta da terzi, allo stato ignoti, in danno del Sig. Aldo Bianzino nell’Istituto penitenziario di Capanne tra il 13 ed il 14 ottobre 20017».

Così si legge nell’istanza presentata in tribunale alla fine di aprile e ieri resa nota da Rudra alla stampa in un’aula del Senato con Valentina Calderone dell’associazione “A buon diritto”, i senatori Luigi Zanda (anche lui avvocato) e Luigi Manconi – icona delle battaglie sui diritti -, e due professionisti che Rudra e i suoi legali ritengono la chiave di volta che dovrebbe portare alla riapertura del caso: il medico legale Antonio Scalzo e l’anatomopatologo Luigi Gaetti (ex parlamentare).

Dopo aver richiesto nel gennaio dell’anno scorso al tribunale di Perugia l’autorizzazione a esaminare le sezioni di encefalo e fegato di Aldo Bianzino, fissate in formalina, i due medici sono arrivati a conclusioni clamorose che confermano le numerose zone d’ombra che già gravarono sul processo per omissione di soccorso (non per omicidio) che si concluse a Perugia con l’indicazione che Aldo non era morto per le botte ma per un aneurisma. In sostanza per cause naturali.

Adesso però legali e professionisti ritengono che vi sia un «…elemento nuovo non conosciuto al momento dell’archiviazione delle indagini» e «decisivo». L’analisi dei reperti biologici di Aldo dimostra infatti due cose. La prima riguarda proprio l’aneurisma che è infatti solo un’ipotesi mai dimostrata in tribunale: «…le argomentazioni poste a sostegno di tale affermazione sono quanto meno lacunose», è scritto nell’istanza, poiché «non c’è evidenza dell’aneurisma come elemento di certezza sul determinismo dell’emorragia». Insomma questo aneurisma – che sarebbe la causa del sanguinamento cerebrale – non si trova «e del resto manca buona parte del cervello, per esplicita e candida ammissione» degli stessi consulenti dell’accusa. In sostanza «a differenza di quanto affermato e non giustificato con metodo di evidenza scientifica» (dai periti), la genesi definita naturale dell’emorragia subaracnoidea «non è dimostrabile in assenza di un reperto anatomico di sacca aneurismatica».

Infine gli accertamenti hanno consentito di datare la lesione nella regione epatica: «La lesione al fegato e quella al cervello insorsero nello stesso arco temporale. L’oggettività del dato – scrivono Gaetti e Scalzo – supera tutte le argomentazioni (già inverosimili) dei Cctt (periti ndr) del pm…» e visto che le lesioni epatiche insorsero almeno due ore prima rispetto al momento del decesso non si possono ricondurre «alle manovre rianimatorie», come era stato sostenuto, facendo risalire la lesione al fegato a un maldestro massaggio cardiaco per salvare Aldo morente dopo la ferita cerebrale dovuta all’aneurisma.

La «sovrapponilità» dei due momenti (sanguinamento cerebrale e lesione epatica) mettono in dubbio tutto l’impianto del processo . E riconducono all’ipotesi che Aldo sia stato picchiato a morte. «Spero che il caso venga riaperto. Altrimenti – dice Rudra – chiederò la revisione dell’intero processo. E se quella via mi fosse rifiutata ricorrerò alla Corte europea dei diritti dell’uomo».

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