Con una norma impropriamente inserita nel Pnrr, il governo ha dato il via libera all’ingresso dei movimenti Pro-vita, contrari all’aborto, nei consultori familiari. L’iniziativa chiarisce in maniera inequivocabile qual è la direzione politica della maggioranza in questa materia. Come ha sostenuto fin dall’inizio della sua presidenza Giorgia Meloni, non è quella di “toccare” la 194/78 e questo almeno per due ragioni: primo che questa legge è stata votata e confermata da un referendum popolare a larga maggioranza (ancora oggi diffusa nel paese); secondo che il testo della legge è talmente generico e sfaccettato nella sua formulazione da poter prestarsi a diverse interpretazioni e ad essere declinato in vari modi, frutto di un complesso e discusso compromesso parlamentare.

Va ricordato infatti che l’emendamento proposto dal partito della premier è stato reso possibile da un articolo della stessa legge 194/78 (art. 2 comma D) che prevede appunto la facoltà da parte dei consultori di avvalersi “della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita”.

Tanto rumore per nulla dunque, come ha scritto qualcuno? Certamente no: non va sminuito l’impatto politico di questo decreto che non solo avvalla iniziative già messe in atto in alcune regioni, ma fornisce a tutte una base normativa nazionale di riferimento che legittima e rafforza l’inserimento delle associazioni contrarie all’aborto nei consultori. Questo risulta ancor più preoccupante alla luce dell’autonomia differenziata che si sta discutendo in Parlamento.

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Per contrastare l’interruzione di gravidanza infatti non occorre modificare la 194/78. È sufficiente da un lato ostacolarne la piena applicazione; dall’altro sfruttare e applicare solo gli articoli che vanno nella direzione opposta. È quanto hanno fatto in questi anni i governi di destra di varie regioni, sotto la spinta dei movimenti Pro-vita e di settori clericali. È noto alle cronache il doloroso calvario che molte donne sono state e sono costrette ad affrontare per abortire, mendicando di ospedale in ospedale, con il rischio di veder scadere i termini di gravidanza fissati per legge, in un paese i cui l’obiezione di coscienza sfiora il 70%, con picchi del 90% in qualche regioni. Altrettanto acclarata è la pratica crudele a cui sono sottoposte in alcune regioni: quella di ascoltare i battiti fetali prima di sottoporsi all’intervento. Una situazione tale da riavviare i viaggi all’estero per abortire (per chi se li può permettere) e da richiamare nel 2016 il monito all’Italia del Consiglio d’Europa per violazione dell’art. 11 della Carta sociale europea, proprio a causa della difficile applicazione della legge 194/78.
Ma la politica colpevolizzante e dissuasiva dell’interruzione di gravidanza è passata anche attraverso altri canali, come quelli del divieto di applicare negli ospedali (Umbria e Marche in primis) l’aborto farmacologico, la RU486, fortemente contrastata nella sua diffusione malgrado le raccomandazioni dell’Oms e perfino le indicazioni ministeriali, in quanto meno invasiva e di più semplice applicazione, rispetto all’intervento strumentale che richiede una ospedalizzazione.

Ancora più eclatante è stato il vero e proprio boicottaggio, effettuato da parte di molte amministrazioni di centrodestra e fin da subito, dei consultori familiari previsti dalla legge 405/75, la cui distribuzione rimane ancora ben al di sotto di quanto previsto (uno ogni 20mila abitanti); servizi nati soprattutto con lo scopo di favorire una scelta consapevole della maternità e di prevenire il ricorso all’aborto con la conoscenza e diffusione di metodi contraccettivi. L’introduzione dei movimenti Pro-vita ha, tra l’altro, il sapore di una indiretta delegittimazione degli operatori: a quale scopo infatti prevedere l’ingresso di altre figure per svolgere compiti già di loro competenza?

L’istituzione dei consultori c’era stata sotto la spinta di un movimento femminista che aveva già creato negli anni Settanta centri autogestiti di salute della donna, ambulatori, centri di self-help, proprio per sottrarre la donna a quella ignoranza del proprio corpo in cui era stata tenuta per secoli da una cultura oscurantista, da norme e divieti laici e religiosi. Basti pensare che il divieto di propaganda e uso dei mezzi contraccettivi è stato cancellato in Italia solo nel 1971, con l’abrogazione dell’articolo 553 del codice penale Rocco. Perfino l’educazione sessuale nelle scuole è stata boicottata nel territorio, in nome del primato dell’educazione familiare rispetto a quella scolastico.

Il paradosso dello scarto esistente tra evanescenti misure di prevenzione e di educazione sessuale da un lato ed ostacoli effettivi al ricorso all’interruzione di gravidanza dall’altro, nonché la grave e sistematica carenza di servizi ed iniziative a sostegno della maternità e della conciliazione maternità-lavoro (asili nido, scuole materne, scuole a tempo pieno, ecc.), dimostra -se ce ne fosse bisogno- la radicata persistenza in larghi settori del nostro paese di una cultura che vede la donna ancora incardinata al suo destino biologico, essenzialmente come madre; non soggetto veramente libero e responsabile delle proprie scelte procreative, ma piuttosto come una minore da indirizzare verso la scelta “giusta”, da guidare, orientare, sorvegliare. Nel mirino insomma c’è qualcosa di più del contrasto all’interruzione di gravidanza in sé: c’è il concetto stesso della libertà della donna rispetto alle scelte che riguardano il proprio corpo.