È infine arrivato il «giorno x» per Hillary Clinton. L’annuncio della sua «preannunciatissima» candidatura alla prossima presidenza degli Stati uniti, è certamente l’evento meno sorprendente della campagna politica che culminerà nel novembre del 2016.

Eppure il tweet con cui oggi rende ufficiale una quarta campagna presidenziale Clinton (contando il suo tentativo nel 2008 e le due precedenti di Bill) ha mobilitato in forze la macchina mediatica che lo attendeva come inizio ufficiale della stagione elettorale. Un momento fatidico nonchè in parte snervante per i democratici, che non senza qualche dubbio si trovano a confrontare la realtà ora ineluttabile di Hillary come candidata unica a cui affidare le speranze per il futuro del partito.

L’ex first lady, senatrice e segretario di Stato, da un lato si trova in una posizione invidiabile di universale notorietà, ma la sua fama non necessariamente si traduce in popolarità e il bagaglio di battaglie polemiche e scandali ammassato dai Clinton in oltre tre decenni di carriera politica fornisce agli avversari altrettante munizioni per la campagna. Dallo scandalo immobiliare Whitewater, al caso Lewinski, fino alla commissione sull’attacco al consolato di Bengazi, ai repubblicani non mancano certo riferimenti sulle tattiche anti-Clinton e potranno ora concentrare tutta la potenza di fuoco nella campagna contro Hillary. Un anticipo c’è già stato con la recente controversia sui server privati di posta elettronica da lei impiegati contro il regolamento del dipartimento di Stato.

E se la campagna Clinton dovesse effettivamente implodere come temono alcuni, per qualche catastrofico imprevisto, non ci sono a questo punto sulla «panchina» democratica credibili alternative. Per controbilanciare la narrazione della investitura «inevitabile» la campagna Clinton cercherà di creare una improbabile aura di «underdog» cioè di «principiante sfavorita».

Per cominciare, alla vigilia dell’annuncio, Hillary ha pubblicato un appendice alla sua autobiografia «Hard Choices», dedicata al suo essere diventata nonna con la nascita della figlia di Chelsea lo scorso autunno.

Un’opera sopraffina di posizionamento pre-elettorale come visionaria – idealista con decenni di esperienza e tuttavia rigenerata, se non purificata, dall’esperienza trascendentale e universale di accudire una nipotina: una Hillary umanamente rinata si offre dunque all’investitura del destino.

Un piccolo capolavoro di agiografia che preannuncia una campagna improntata al rinnovamento e progettata su «scala umana» dal campaign manager in pectore il 35enne Robbie Mook scelto per le capacità e l’impeto giovanile.

Il suo compito sarà quello di focalizzare l’immagine che vuole presentare all’elettorato: nonna e compassionevole genitrice della nazione o politica ferrata e diplomatica di ferro al servizio degli interessi nazionali americani come e più di ogni falco repubblicano – senza risultare una versione di Lady MacBeth o Claire Underwood di «House of Cards» come la dipingerebbero molti avversari.

A differenza del 2008 – inoltre – quando il suo primato di donna venne neutralizzato da quello più eclatante di Obama, Hillary sarà libera di calcare più esplicitamente sulla «questione femminile» anche se sarà ancora una volta costretta ad articolare il suo femminismo fra le immancabili accuse di imperiosità della destra e le critiche che non mancano anche dal campo femminista, ad esempio per le connivenze clintoniane con repressivi regimi autarchici di stati arabi.

Paradossalmente nella gara anomala fra Hillary e una dozzina di repubblicani più o meno eccentrici (già ufficialmente in campo sono il neo-teocon Ted Cruz, il libertarian Tea Party Rand Paul e da oggi anche l’oltranzista «cubano» di Miami Marco Rubio) sono quest’ultimi reazionari ma quarantenni e cinquantenni, ad esprimere superficialmente l’idea di gioventù e rinnovamento.
Hillary dovrà controbattere con un programma che implica una inevitabile acrobazia politica: cavalcare i successi di Obama e sottrarsi contemporaneamente alla sua ombra evitando le critiche autolesioniste.

Rimane da vedere se Hillary candidata sarà fautrice del centrismo pragmatico e moderato di suo marito o tutrice delle politiche sociali più progressiste di Obama come la riforma sanitaria così invisa ai repubblicani di cui proprio lei fu sostenitrice durante il primo mandato di suo marito. Bisognerà scoprire cioè se ci sono ancora i margini per una Clinton di sinistra fautrice di uno scontro frontale coi repubblicani soprattutto su disuguaglianza economica.

Lo chiedono molti liberal che oggi temono le eccessive connivenze dei Clinton con gli interessi finanziari di Wall Street e si allineerebbero di preferenza dietro una campagna di Elisabeth Warren, unica vera pasionaria progressista del partito.

Se infine il campo repubblicano sarà effettivamente destinato ad assottigliarsi fino a lasciare il campo a Jeb Bush, si profilerebbe lo scontro «dinastico» che molti aspettano e altrettanti temono: un Clinton/Bush per il nuovo millennio dopo otto anni di Obama avrebbe un marcato sapore di restaurazione qualunque dovesse essere l’esito finale.

Una formula destinata dunque ad accentuare la naturale apatia dei giovani così efficacemente mobilitati da Obama. E in questo scenario Hillary avrebbe contro anche il peso della storia: un terzo mandato consecutivo per uno stesso partito c’è stato una sola volta dal dopoguerra.