A Buenos Aires sono ovunque. Sono viola, rossi, gialli, bianchi. Hanno dei disegni: fiori, cuori, tacchi alti, silhouette di donne. Sono attaccati ai pali della luce, alle fermate del bus, ai cassonetti. Sono fogli molto piccoli, sopra un disegno generico e un numero di telefono. La capitale argentina ne è invasa. Ma dietro a ognuno di quei foglietti c’è la storia di una donna. Una donna rapita e sequestrata, vittima di tratta. Quei papelitos sono i biglietti da visita di centinaia di bordelli, detti postriboli, sparsi in tutto il paese, luoghi dove migliaia di donne vengono sequestrate e costrette a prostituirsi.

Si stima che in Argentina siano oltre 20mila le donne vittime della tratta e a cercarle, da oltre 10 anni, è un’altra donna: Margarita Meira. Margarita ha 69 anni e si presenta come «mamma di Susi, mamma di una vittima di tratta». Nel 1991 Susi, sua figlia, è stata rapita dal fidanzato e costretta a prostituirsi in uno dei numerosi postriboli del paese. Da allora Margarita lotta contro la tratta e ricerca le donne sequestrate. Da quattro anni ha fondato l’associazione «Madres víctimas de trata», un gruppo di mamme e di volontarie con sede a Buenos Aires che lotta per abolire la tratta e ritrovare le figlie scomparse. Nonostante la legge del 2008 approvata dal governo, poi ampliata nel 2012, contro la tratta, l’Argentina continua a essere un luogo di arrivo o di transito per le migliaia di persone sequestrate.

«OGGI SIAMO 18 MAMME, alcune stanno cercando le loro figlie, altre le hanno trovate morte, mentre altre hanno dovuto ricoverarle nell’ospedale psichiatrico – racconta Margarita – Abbiamo pochi fondi e poche forze, ma non ci fermiamo perché chi porta avanti il traffico di esseri umani è responsabile dello stupro e della morte delle nostre figlie». Essere sequestrata e diventare una vittima di tratta è fin troppo facile: si può essere rapite per strada, vendute da familiari o fidanzati a un postribolo, adescate con falsi annunci di lavoro o sequestrate mentre si compra della droga. La maggior parte dei sequestri avviene nelle zone più povere del paese e le vittime di tratta sono perlopiù donne indigenti.

[do action=”quote” autore=”Margarita Meira”]«A me non interessa quello che dice la polizia. Posso assicurare che nessuna di quelle ragazze si prostituisce volontariamente, nessuna»[/do]

«CI SONO RAGAZZE che cerchiamo da 5, 10, 15 anni», spiega Margarita, gesticolando rapidamente con le sue mani forti e rovinate dal lavoro. Ha capelli ricci e chiari, la carnagione scura, lo sguardo dolce e deciso: «Io mia figlia l’ho trovata casualmente. Quando una ragazza vittima di tratta viene uccisa la polizia dichiara che si prostituiva volontariamente o che si drogava e tentano di far passare le loro morti per incidenti e non per omicidi. Questo è quello che è successo a me con mia figlia. Non oso immaginare con quante altre ragazze lo facciano».

L’associazione «Madres víctimas de trata» si riunisce una volta al mese a Plaza de Mayo e marcia di fronte al palazzo della Casa Rosada, omaggiando così le coraggiose Madri de Plaza de Mayo che dai tempi della dittatura marciano nello stesso luogo ogni giovedì per chiedere giustizia per i propri figli scomparsi. Oltre a sensibilizzare la società civile sulla tratta e a manifestare per avere giustizia, l’associazione si occupa anche di ricercare e riscattare le ragazze sequestrate. «La prima ragazza che abbiamo riscattato è stata Soledad Pedrazza, rapita insieme alla figlia di tre anni che era costretta a fare pornografia infantile. Siamo riuscite a riscattarla, ma poco tempo dopo Soledad è stata rapita di nuovo». Nel 2010, quando è stata rapita per la seconda volta, Soledad aveva 19 anni ed è stata portata a Las Heras, nella provincia di Santa Cruz.

LA POLIZIA, CONTATTATA da Margarita, ha assicurato che Soledad fosse scappata di sua volontà con il fidanzato. Raggiunta telefonicamente da una giornalista, ha assicurato di stare bene e ha dato un indirizzo di residenza. Un sacerdote de Las Heras, contattato dall’associazione delle madri, si è recato all’indirizzo e ha scoperto che era un postribolo. Né Margarita, né il sacerdote hanno potuto fare altro per aiutare Soledad, che risulta trovarsi ancora nello stesso postribolo.
«Purtroppo non è stata l’ultima volta in cui i poliziotti ci hanno assicurato che le ragazze vittime di tratta stavano bene e che erano scappate con il loro fidanzato: è una pratica comune – dice Margarita – E non è stato l’unico caso in cui una ragazza riscattata da noi è stata sequestrata una seconda volta». Il 18 agosto 2015, a Oriunda de Quilmes, Nora Soledad Rivas Villar di 15 anni è stata sequestrata e portata in un postribolo. Giorni dopo il rapimento la mamma di Nora ha cominciato a ricevere chiamate dalla figlia in cui assicurava di stare bene. La mamma, che non si è fidata, ha contatto Margarita e insieme hanno cominciato a cercarla. Dopo tre mesi Nora è riuscita a scappare: era in condizioni terribili. Malnutrita, incinta, ricoperta di lividi e bruciature di sigaretta.

L’associazione ha preso in carico Nora, sua madre e la sua sorellina e le ha ospitate in case di fortuna. Hanno cambiato continuamente alloggio per questioni di sicurezza, ma il 24 dicembre dello stesso anno Nora è stata rapita di nuovo.
È stata sequestrata nello stesso postribolo e costretta a scrivere una lettera in cui diceva di essere scappata di sua volontà. «Né io né la madre abbiamo creduto a quella lettera – racconta Margarita – E così non ci siamo arrese. Dopo un mese ho ricevuto una telefonata: era Nora che mi chiamava da un cellulare che aveva rubato a un cliente. Mi ha detto di aspettarla alla stazione Caballito alle 9 di sera. Sono andata subito in stazione e l’ho vista arrivare di corsa in tacchi alti, reggiseno e mutande con in mano il cellulare da cui mi aveva chiamato. L’ho portata via. Sono passati due anni e ora Nora vive con la madre e la sorellina. Però continua a essere completamente abbandonata dallo Stato e non è giusto: una persona che vive un inferno del genere ha bisogno di tutto il sostegno necessario per tornare a una vita normale».

COME EMERGE dalle testimonianze raccolte dalle «Madres víctimas de trata», dopo il sequestro le ragazze vengono portate nelle villas miserias, enormi capannoni gestiti dai proprietari dei postriboli e dai narcotrafficanti, che le violentano prima di venderle a un postribolo. Nei postriboli più piccoli sono sequestrate almeno 10 ragazze che ricevono fino a 20 clienti al giorno e guadagnano almeno 400mila pesos (6mila euro) ogni 24 ore. Ma i clienti come trovano i postriboli, nella sola Buenos Aires più di mille? Possono chiamare il numero stampato sui papelitos oppure trovarli sui social. Su Facebook ci sono molti profili, come Tacos Altos, a cui il cliente può accedere per visionare le foto delle ragazze sequestrate.

 

foto di Elena Basso

 

«NEL 1991 MIA FIGLIA Susi è stata venduta dal suo fidanzato. Io non sapevo nemmeno cosa fosse la tratta», racconta Margarita mentre sistema i cartelloni che le mamme portano alle manifestazioni di protesta. Le istantanee della loro lotta: le foto delle figlie scomparse, slogan contro la tratta, le foto dei padroni dei postriboli. «Il fidanzato era un delinquente, vendeva droga, rubava. Susi era una figlia eccellente. All’epoca ero incinta del mio ultimo figlio e quando è scomparsa ho cominciato a cercarla ovunque. Aveva 17 anni e in tribunale o al commissariato tutti mi ripetevano che mia figlia sicuramente era scappata per amore. Un giorno in tribunale mi hanno anche detto che era pericoloso stare sempre lì, che mentre mi trovavo fuori di casa magari un altro dei miei figli sarebbe potuto sparire».

«Mio marito guidava un taxi. Una notte è rientrato alle 3 e mi ha detto che dovevamo andare in commissariato perché Susi aveva avuto un incidente. Ho capito subito che era morta: per un incidente si va in ospedale, non in un commissariato. In auto mio marito mi ha raccontato che un suo collega aveva portato in taxi due uomini, uno era l’assassino di mia figlia. Gli aveva sentito dire di aver ucciso una ragazza di nome Susi con una finta perdita di gas e ha detto che il corpo era in commissariato.

«Se quel collega di mio marito non ci avesse avvertito, non avrei mai ritrovato mia figlia: stavano registrando Susi come persona non identificata. Mia figlia era incinta, il suo corpo era completamente ricoperto di lividi, ma almeno l’ho potuta sotterrare. E in commissariato hanno scritto che era morta per un incidente, anche se era stata uccisa. È stato un periodo durissimo, ma quando dopo quattro anni mi sono ripresa ho fatto causa per far riconoscere che la morte di mia figlia era stata un omicidio».

 

foto di Elena Basso

 

NEL 2018 MARGARITA ha vinto la ventesima edizione del premio internazionale «Donna dell’anno» in Val D’Aosta. Al suo rientro alcuni ignoti hanno sparato dei colpi d’arma da fuoco contro la sede dell’associazione, a Constitución, una delle zone più pericolose della capitale argentina. Nelle vie limitrofe ci sono alcune ragazze agli angoli di strada. Una di loro è seduta a terra, il busto appoggiato a un palazzo e le lunghe gambe nude sono accasciate a terra. Ha lo sguardo perso, fissa un punto indistinto alla sua destra e ha il vuoto negli occhi. Come ha ripetuto Margarita, «a me non interessa quello che dice la polizia o quello che si dice in tribunale. Io posso assicurare che nessuna di quelle ragazze si prostituisce volontariamente. Nessuna».