Tra i migliori film italiani di tutti i tempi trovano senz’altro posto alcuni dei primi film di Ermanno Olmi, scomparso ieri all’età di 86 anni (era nato a Bergamo nel 1931). Non solo per la loro forma compositiva, ma per essere stati del tutto eccentrici nel nostro panorama produttivo, indicandone per contrasto i limiti, le volgarità, i compromessi, certi misteriosi flussi di denaro, rimettendo in primo piano personaggi cancellati. Tra il sottoproletariato e l’alta borghesia dove gli sceneggiatori amavano per lo più trarre ispirazione, comparvero impiegatini, vecchi guardiani, saldatori, dimesse figure di ragazze ma soprattutto una inedita tensione morale sottintesa. Si entrava in uno sfondo industriale del nord che il nostro cinema non aveva mai percorso.

Ermanno Olmi dopo studi al liceo scientifico e artistico e corsi di Arte Drammatica iniziò a lavorare alla Edisonvolta incaricato dal ’53 del «Servizio Cinema» dove girò almeno una trentina di documentari «industriali» che anni dopo approdarono anche nei cineclub (come La Diga sul ghiacciaio o L’energia elettrica nell’agricoltura) e in seguito servizi per la Rai di carattere storico (come La Costituzione, De Gasperi). Si nutre di tutta questa esperienza il suo esordio Il tempo si è fermato (’58), una incredibile sintesi di tutta questa esperienza di luoghi e persone, ambientato nel periodo invernale di pausa dei lavori di una diga dove il vecchio guardiano e il giovane arrivato ad aiutarlo intessono un rapporto di rude amicizia.

Tutto l’apprendistato e l’esplorazione nel mondo dell’industria servirà da sfondo per i successivi lavori più conosciuti, come Il Posto (’61) interpretato da attori non professionisti (l’interprete femminile Loredana Detto diventò sua moglie) che portò l’inedita immagine desolante dell’azienda ai suoi più bassi livelli.

In qualche modo Olmi esplora con umanità e sguardo differente quello che poi Paolo Villaggio metterà in scena secondo i canoni della commedia. Tutte le sfumature delle piccole vite qui del fattorino, nei Fidanzati (’63) del saldatore spedito in Sicilia con la ragazza rimasta a Milano e anche dei dirigenti e la scalata al successo di Un certo giorno (’68) sono progettati da un punto di vista che non si pone al di sopra del soggetto che si vuole raccontare, con sguardo di superiorità e irrisione come per la maggior parte dei film italiani quando mettono in scena «il popolo», ma con una partecipazione ricca di spunti sottintesi, significativi, affettuosi, lievemente umoristici, anche se inflessibili come il destino.

Alla mostra di Venezia lo scorso anno è stato presentato dall’Istituto Luce un film di Olmi «scoperto» in pizze che portavano solo la sigla T.S. per «tentato suicidio», un esempio di cinema industriale commissionato nel ’68 dalla casa farmaceutica Sandoz: da una parte la presenza autorevole del direttore dell’ospedale psichiatrico di Milano, di altri medici e psichiatri che con freddezza clinica e tabelle esplicative illustrano i dati e le cause del fenomeno che sembra colpire notevolmente più le ragazze che i ragazzi. Dall’altra Olmi racconta una infelice storia d’amore caratterizzata dalla differenza di classe, un film che testimonia anche la grande trasformazione giovanile in atto.

In Racconti di giovani amori (’67) – un progetto per il piccolo schermo – aveva esplorato i sentimenti e temi come l’onestà e la serietà, la fede e il senso del dovere. Finisce anche il boom economico e tutte le grandi speranze che avevano reso euforico il paese. Termina anche la prima fase della carriera di Olmi: con L’albero degli zoccoli (’78), Palma d’oro a Cannes si apre un’altra pagina: dopo un cinema nutrito di documentari, di analisi del lato sotterraneo di una società, Olmi ripercorre le vicende più antiche del paese contadino, di origini contadine lui stesso, con un film in dialetto bergamasco ambientato nel 1897 dove è presente la ribellione di una classe oppressa, fino alla sommossa repressa da Bava Beccaris l’anno dopo. Emerge il lato più poetico del suo raccontare che emergerà anche nella favola dei Magi Camminacammina (’82). Nell’82 nasce anche «Ipotesi cinema» a Bassano del Grappa, il suo laboratorio scuola a cui tanti giovani registi faranno riferimento come Francesca Archibugi, Mario Brenta, Giacomo Campiotti, Roberta Torre. Dopo una lunga pausa per malattia, la serie successiva di film ricevette grandi riconoscimenti: Lunga vita alla signora (’87), il potere visto dai piani bassi, dall’ultimo dei camerieri, La leggenda del santo bevitore (’88) da Philip Roth con Rutger Hauer, film sull’onore e la Grazia e Il segreto del bosco vecchio (’93) da Buzzati con Paolo Villaggio, con la scelta inedita di attori professionisti.

Il mestiere delle armi (2001) è come un magnifico ritorno alla precisione documentaristica applicata al XVI secolo, racconto malinconico di integrità in un mondo in trasformazione. Nel 2003 Cantando dietro i paraventi, ispirato diceva, a un antico racconto cinese, nel 2007 con Centochiodi sceglie Raz Degan come un Nazareno che rinnega la cultura e si isola nella natura, elementi di cristianesimo che si diramano nella sua opera qui espressi in forma esplicita. Nel 2008 riceve a Venezia il Leone d’oro alla carriera e nel 2013 la laurea honoris causa all’Università di Padova in scienze umane e pedagogiche. Tra lunghe pause per problemi di salute dichiara che non farà più film, ma Torneranno i prati (2014) resterà a concludere l’autorevole arco della sua carriera: il sacrificio oscuro dei soldati in trincea durante la prima guerra mondiale.