L’ultima volta era successo nel 2007, prima della crisi finanziaria globale. A 17 anni di distanza, la banca centrale del Giappone ha alzato i tassi di interesse di riferimento a breve termine. Una mossa attesa da tempo e invocata da più parti, che porta Tokyo a dare una radicale svolta alla sua politica monetaria, rimasta per lungo tempo ultra-accomodante nonostante l’inflazione e le turbolenze globali causate da Covid prima e guerra in Ucraina poi. Negli ultimi due anni, il Giappone era rimasto l’unico a muoversi in maniera opposta a tutti i maggiori istituti centrali al mondo che, a partire da Bce e Fed, hanno operato un drastico e quasi inarrestabile aumento dei tassi. A Tokyo si è rimasti fermi, tenendo fermo in mano il cosiddetto “bazooka monetario” imbracciato con sempre maggiore forza durante l’ultimo decennio, anche dopo che tutti gli altri lo avevano abbandonato.

«IMPOSTEREMO la politica monetaria come le altre banche centrali», ha detto il governatore Kazuo Ueda, al termine dei due giorni della riunione periodica per la revisione della politica monetaria. «I tassi ufficiali saranno determinati in base alla situazione economica e ai prezzi», ha aggiunto. Di fatto, il Giappone si lascia alle spalle un pezzo importante di Abenomics, la strategia economica messa a punto nel 2013 dall’ex premier Shinzo Abe, assassinato nel 2022. Una strategia votata a grandi stimoli fiscali anti recessione e a una politica monetaria espansiva per uscire dalla deflazione ormai cronica che caratterizza il Giappone dai “decenni perduti” della stagnazione, seguiti al grande boom economico esauritosi tra fine anni ottanta e inizio anni novanta.

TRA GLI EFFETTI collaterali nel medio-lungo periodo, l’Abenomics ha prodotto un aumento esponenziale del debito: con il 255% del 2023, il Giappone è oggi tra i paesi più indebitati al mondo in rapporto al prodotto interno lordo. Contraccolpi anche sulle tasche dei cittadini e sulla loro capacità di spesa, visto che i salari non sono cresciuti allo stesso ritmo dei prezzi e che lo yen ha subito un crollo record del proprio valore, impattando sul potere d’acquisto.

Proprio la debolezza dello yen, sceso ai minimi sul dollaro statunitense dall’inizio degli anni Novanta, è uno dei fattori che ha contribuito all’ingresso in recessione tecnica con due trimestri consecutivi di calo del pil registrati a fine 2023. Un dato che ha portato il Giappone a perdere il titolo di terza economia mondiale, subendo il sorpasso della Germania dopo aver già subito quello della Cina al secondo posto nel 2010.

OLTRE A USCIRE per la prima volta dal 2016 dalla politica di tassi di interesse negativi, la banca centrale ha assestato degli altri colpi alle fondamenta dell’Abenomics. Primo: verranno ridotti gli acquisti di beni e asset rischiosi, tra cui i fondi negoziati in borsa e i fondi comuni di investimento immobiliare. Secondo: verrà messo fine alla politica di «controllo della curva», per cui la banca centrale manteneva i rendimenti dei titoli di stato a 10 anni intorno allo 0% attraverso l’acquisto di titoli obbligazionari a un prezzo prefissato.
Ci si aspettava da tempo la svolta, sin da quando il premier Fumio Kishida aveva parlato di «nuovo capitalismo» e da quando, lo scorso aprile, alla banca centrale è arrivato Ueda. La decisione della banca centrale è stata favorita dall’aumento salariale appena annunciato dalle più grandi aziende giapponesi per il 2024: +5,28%, il più consistente degli ultimi 33 anni. I sindacati avevano chiesto un aumento del 5,85%, ma in ogni caso era dal 1994 che non si andava oltre il 5%. Una sorpresa, per gli analisti, che si aspettavano una crescita intorno al 4% dopo il 3,6% dello scorso anno.

C’È COMUNQUE ancora molta strada da fare. Gli stipendi sono aumentati solo del 10% dal 1991 al 2020. Ben al di sotto della media delle altre economie avanzate. Il salario minimo medio giapponese è inferiore di oltre il 30% rispetto a quello di Francia, Germania e Regno unito. Non solo. Anche se le aziende giapponesi hanno aumentato le retribuzioni, gli aumenti non sono riusciti in gran parte a tenere il passo con l’inflazione. I salari reali, adeguati all’inflazione, sono ormai in calo da 22 mesi consecutivi.