Messaggi privati, registrazioni audio e video, immagini: un totale di 300 megabyte di dati relativi agli account di una madre e sua figlia adolescente – Jessica e Celeste Burgess – consegnati da Facebook alle forze dell’ordine del Nebraska in un caso di presunto aborto.

IN NEBRASKA l’aborto non è illegale – è consentito fino alla 20esima settimana – anche se lo scorso aprile un trigger ban che avrebbe messo fuorilegge l’Ivg sin dal concepimento, in caso la Corte suprema annullasse Roe v Wade come poi è accaduto, non è passato per appena due voti. Inoltre, il caso di Jessica e Celeste Burgess – 17enne all’epoca dei fatti ma che verrà processata come un’adulta – è precedente alla sentenza che ha cancellato il diritto federale all’aborto: il mandato di perquisizione è stato inoltrato a Meta (la compagnia “madre” di Facebook) nei primi giorni di giugno, poco prima della decisione dei giudici costituzionali.
Ma la vicenda del Nebraska, riportata dal Lincoln Journal-Star, getta una luce su ciò che le principali compagnie tech avevano rifiutato di rivelare all’indomani della sentenza: e cioè come si sarebbero comportate con le richieste delle forze dell’ordine relative ai dati privati di persone sospettate di aver “facilitato” un’interruzione di gravidanza.

Esattamente l’incriminazione che ha colpito la madre di Celeste Burgess, Jessica, dopo che i dati consegnati da Facebook hanno indotto la polizia a ritenere che quello che la ragazza aveva definito un caso di aborto spontaneo fosse stato causato in realtà – molto oltre il termine delle 20 settimane e senza la supervisione di un medico come richiesto dalla legge dello stato – da un farmaco abortivo acquistato online dalla madre. A quel punto i capi d’accusa – che per entrambe in precedenza riguardavano solo il fatto di aver disposto illegalmente di «resti umani» – si sono moltiplicati per la madre, accusata anche di aver indotto un aborto illegale.

NON SOLO: le conversazioni private fra le due su Messenger hanno fatto sì che un giudice autorizzasse un secondo mandato, stavolta per sequestrare tutti i dispositivi elettronici di Celeste e Jessica.
Quando Vice ha pubblicato i documenti legali legati al caso, fra cui la deposizione giurata del detective che ha richiesto il mandato, Facebook ha subito pubblicato un comunicato in cui sostiene che «nei mandati che abbiamo ricevuto dalle forze dell’ordine locali» «non si parlava di aborto», e si sottolinea come il caso fosse precedente alla sentenza della Corte suprema. Ma già da maggio, quando era trapelata una bozza delle decisione, attivisti per i diritti umani e digitali avevano messo in guardia dal ruolo potenzialmente distruttivo dei giganti tech. A cui chiedevano di prendere provvedimenti in merito alla quantità di dati privati che conservano e di cui le forze dell’ordine avrebbero giocoforza fatto richiesta. Oltre a fare pressioni sulla stessa Meta perché applicasse la crittografia end to end di cui è dotata Whatsapp (in cui i messaggi sono visibili solo a chi li manda e li riceve) anche ai servizi di messaggistica di Facebook e Instagram.

La compagnia di Zuckerberg aveva promesso di fare questo passo già nel 2022, ora è stato rimandato al 2023. Nel frattempo è stato provato che lo scenario distopico dipinto da attivisti, avvocati e specialisti del settore si è avverato: è già accaduto, succederà ancora